Un colpo per uno, come a ping pong. Comincia uno a guardare un film. L'altro risponde, aggiunge, approfondisce e prosegue. Bruno Fornara comincia. Fabrizio Tassi risponde. E avanti così fino alla fine. Critica passeggiante. A spasso dentro un film.
P.S. Si consiglia di tenere il dvd sotto mano.
“Una storia vera” di David Lynch, del 1999, in originale è “The Straight Story”, che vale due: significa “Una storia dritta” e significa “La storia di Straight”. È ispirato a un fatto realmente accaduto. Alvin Straight, un contadino dell'Iowa, nel 1994, all'età di 73 anni, si mise in viaggio su un piccolo trattorino tosaerba per andare a trovare il fratello che aveva avuto un infarto. Per coprire le 240 miglia tra Laurens (Iowa) e Mount Zion (Wisconsin), Straight impiegò sei settimane alla velocità di 5 miglia all'ora. Lynch ha trasformato questa notizia di cronaca in un film che è una storia “straight”. Dritta nel senso di lineare. Dritta nel senso di giusta e nobile.
Richard Farnsworth, il protagonista, ha percorso una carriera da caratterista, è stato nominato all'Oscar come attore non protagonista per “Arriva un cavaliere libero e selvaggio” di Alan J. Pakula e come miglior attore protagonista per “Una storia vera” che è il suo ultimo film. Malato, si è ucciso pochi mesi dopo la fine delle riprese.
1. Bruno Fornara
All'inizio, quando scorrono i titoli di testa, c'è un cielo notturno con tante stelle. Lynch apre e chiude il film su questa immagine, la notte, il cielo, le stelle. Bisogna guardare con attenzione per accorgersi che la macchina da presa non è ferma. Avanza pianissimo nel cielo, affonda nell'oscurità, dritta, senza tentennamenti, accompagnata da un motivo musicale tenero e semplice di Angelo Badalamenti. Per accorgersi che la macchina da presa si muove, bisogna tenere d'occhio il bordo dell'inquadratura: si vedono le stelle avvicinarsi al bordo e sparire oltre. Il movimento è quasi impercettibile. Quando arriveremo alla fine del film e a questa stessa inquadratura noteremo una differenza. “Una storia vera” è apparentemente un film semplice, lineare, dritto. In realtà è intessuto di molti rimandi e rapporti, è un film a molti livelli, è un film di superficie – la superficie della terra americana, coltivata dagli uomini, la superficie percorsa da Alvin e dal suo tosaerba – ma è anche un film che si allarga in tante direzioni. Cercheremo di riconoscerle. Per adesso, fin da questa prima inquadratura notturna e celeste, tiriamo un filo che andrà a congiungersi all'ultima inquadratura, ugualmente notturna e celeste. Con una differenza che, quando arriveremo alla fine, faremo notare. Differenza importante.
Dal cielo alla terra. Una terra coltivata, campi di granturco in file ordinate, una grande mietitrebbia al lavoro, la macchina da presa vola sui campi e si ferma sopra un posto preciso sulla terra, Laurens, nell'Iowa, il nome sta scritto sull'alto serbatoio dell'acqua. Un posto come tanti, la strada principale assolata e deserta, i grandi silos, solo un pickup parcheggiato, una macchina agricola percorre la strada, passano dei cani, non si vede anima viva. Poi la macchina da presa scende, si abbassa su un prato, c'è una signora che prende il sole su una sdraio, ci sono due case in legno. Qui comincia la “straight story”, la dritta storia di Alvin: che Lynch pone tra cielo e terra. Una terra abitata e un cielo stellato. Lungo tutto il film Alvin si muoverà con lentezza tra terra e cielo.
2. Fabrizio Tassi
Eppure siamo dentro un film di David Lynch, quello delle Strade perdute e dei labirinti della mente.
In effetti quella strada semi-deserta sembra un po’ persa anche lei, in ombra per metà, sovrastata da silos giganteschi (li rivedremo tra poco), percorsa da cani randagi e da un lento trattore che ha un rimorchio tentacolare. Twin Peaks? La casa e il giardino (che appaiono in dissolvenza incrociata, inquadrati dall’alto) fanno invece pensare a Velluto blu.
La macchina da presa scende lentamente, accompagna fuori dall’inquadratura una certa Dorothy, e si inoltra nel verde, mentre la musica lascia il posto al rumore del vento tra gli alberi. Giriamo attorno alla casa, in piano sequenza, e approdiamo davanti a una finestra, ad attendere chissà quale mistero, brivido, orrore. Un tonfo (fuori campo, dentro la casa). Cosa è successo? Quando riappare la signora grassa che stava prendendo il sole, le sensazioni si confondono (sì, è proprio Lynch). Il sorriso si mescola all’attesa e al presentimento inquieto. Nero. Sequenza finita.
Un anziano signore immusonito (c’è anche un amico baffuto che lo aspetta) ci riporta coi piedi per terra. A quanto pare sta cercando Alvin Straight, detto così, nome e cognome. La signora non l’ha visto, anzi, neanche lo considera («Rose è uscita») e in effetti ha gli occhi chiusi da una maschera. Ma il vecchio scansa il primo piano ingombrante di Dorothy, arriva accanto alla casa del prologo, al rumore dei rami e del vento, e poi, finalmente, ci accompagna dentro (ci mostra il fuori).
Eccolo, Alvin Straight. L’eroe della storia, il protagonista del film, fa la sua apparizione sdraiato sul pavimento. Niente male come entrata. Alla faccia degli ingressi hollywoodiani, quelli in cui lei si gira all’improvviso e appare in tutti il suo splendore. Quelli in cui lui è sbirciato dal basso, in piena luce o in mezza penombra, e risalta in tutta la sua imponente, statuaria, perturbante grandezza.
Alvin, invece, è schiacciato per terra, nel buio. Prefigurazione della morte? Segno della vecchiaia e della malattia? Certo è che da laggiù il mondo appare in tutta un’altra prospettiva. «Sono qui Bud, attento a dove metti i piedi».
3. Bruno Fornara
Il film parte fermandosi. È appena cominciato e il protagonista è lì steso per terra e non ce la fa ad alzarsi. Ha intorno il vecchio Bud, vecchio come lui, e una signora in carne, che parlano a sproposito. La signora Dorothy si chiede quale sia il numero del 911, del pronto soccorso, lo sa il numero, lo dice e non si accorge di saperlo. Secondo Dorothy, Alvin ha avuto un colpo. Bud lo chiede direttamente a Alvin. La situazione, per certi versi, è comica. Torna anche la figlia Rose (Sissy Spacek), certo più giovane degli altri due, ma neppure lei in grado di fare qualcosa: balbetta (e non per essersi spaventata a vedere il padre sul pavimento, balbetta proprio), pensa che siano i due ad aver fatto qualcosa al padre. Finalmente Alvin si tira su sui gomiti, dice che ha solo bisogno di un aiuto per rimettersi in piedi. Stacco.
Una strada ampia, molte piante ai bordi, le case con un po' di prato di fronte, una macchina viene avanti piano, sopra ci sono Alvin, Rose e Bud che non è granché come autista: fa andare su di giri di parecchio il motore e la macchina si ferma a sobbalzoni. E quando Rose scende la portiera posteriore fa fatica a chiudersi. Insomma: tutto funziona malaccio in questo posto, tutti sono vecchi, uno di loro è caduto, chi lo aiuta lo fa come può. La lunga prima parte del film è posta sotto il segno della stasi, della difficoltà del muoversi, della fine vicina, della fatica. Della vecchiaia.
Laurens è un posto per vecchi e di vecchi che non possono aspettarsi altro che un lento spegnersi. Il film mostrerà che per uno di loro le cose non stanno così. Certo, non è facile: Alvin ci mette un quarto di film prima di riuscire a partire davvero. Ce la fa a partire al secondo tentativo, al minuto 34 sui 107 che dura il film (nel mio dvd). Gli ci vuole tempo per avviarsi.
Per adesso la figlia e il suo amico Bud lo portano in un prefabbricato dove c'è l'ambulatorio del dottore: anche qui le notizie non sono per niente buone. Alvin scende dalla macchina appoggiandosi al bastone, aiutato da Rose. Anche la portiera davanti scricchiola. Bud dice che torna al bar. Alvin guarda l'ambulatorio, non vuole andarci, lo dice e lo ripete, non vuole aver niente a che fare con dottori e cure, sa bene che per lui è finita o quasi. È Rose a costringerlo a entrare. E la sequenza dentro l'ambulatorio è fatta apposta per dirci che Alvin ha ragione: non c'è molto che si possa fare e Alvin non vuole farlo. Si comincia male: l'infermiera gli dice di spogliarsi e di mettersi un camice. Lui le risponde di mandargli il dottore e che non ha nessuna voglia di svestirsi. Alvin è un gran testardo (oltre a essere consapevole del suo pessimo stato di salute). Si guarda in giro, tutte quelle boccette, quegli strumenti e quelle medicine non fanno per lui.
4. Fabrizio Tassi
Rose parla delle sue casette per gli uccelli (siamo al minuto 9), mentre Alvin si ritrova nudo come un verme: "Niente operazione!". E' uno stacco brusco e deciso come questo vecchio testardo. Non sappiamo cosa gli ha detto il dottore, per la verità neanche ci interessa. Ciò che importa è che il nostre eroe (?!) non ne vuole sapere di farsi aiutare, accudire, restaurare. "Niente deambulatore!". E' vecchio, e allora? E' lì indifeso, smagrito, ammalato, ma ha un orgoglio grande così. "Niente esami!". Le conseguenze potrebbero essere assai gravi. Bisogna badare anche alla dieta e al fumo.
Stacco su un secondo bastone. Almeno questo lo ha accettato. Ma la macchina da presa si sposta sul suo sigaro e il dettaglio della mano che accende un fiammifero. E' proprio un bel tipo questo Alvin (a proposito di dieta, lo vedremo mordere salsicce lungo tutto il viaggio). Aspira, sfacciato. Ma si vede che qualcosa lo rode dentro. Eccola sua figlia Rose, con una nuova casetta per gli uccelli in mano. L'inquadratura si allarga per accoglierla. Ecco, forse, cosa preoccupa il vecchio: che fine farà Rose quando lui non ci sarà più? "Questa ha il tetto rosso, la prossima la faccio col tetto blu". "Mi pare una buona idea". In realtà il dialogo vero avviene in silenzio, nel non-detto, e nello stacco sul primo piano preoccupato di lei: "Cosa dice il dottore?". Anche lui torna in primissimo piano. Ora sono separati in due inquadrature diverse, a mentirsi sorridendo. "Dice che campo fino a cent'anni". Ma ci mette un'eternità ad alzarsi.
Stacco sul tagliaerbe che non parte. Il motore gira a vuoto. Tutto complotta contro Alvin, le macchine come la natura.
5. Bruno Fornara
Adesso sappiamo che Alvin ha il diabete, problemi agli occhi, alle anche, alle arterie, un principio di enfisema: e il rosso tagliaerba, marca Rehds, non vuole saperne di partire. Alvin lo prende a bastonate. È lì con Rose che sta pitturando di blu il tetto della casetta per gli uccelli. Rose – lo sapremo tra poco – ha un conto aperto, un dolore fisso e profondo legato alla sua casa e ai suoi "uccellini": per questo costruisce ripari per altri uccellini. Alvin guarda il cielo scuro: sta arrivando un temporale.
Il tempo che fa, il tempo meteorologico ha un posto importante nel film. Alvin e Rose guardano spesso il cielo. È il cielo il loro "spettacolo". Quando si è fatta notte, Alvin e Rose stanno seduti davanti a una finestra mentre fuori piove forte. I lampi sbiancano i loro volti. Alvin sorride, lo spettacolo gli piace. Lui e Rose adorano i temporali e i lampi. È qui, tra lampi e tuoni, che arriva la cesura nella narrazione. In un film, quando piove, è statisticamente molto probabile che arrivi una brutta notizia, che succeda qualcosa di spiacevole. Rose va a rispondere al telefono: è successo qualcosa a Lyle, il fratello di Alvin. Il volto di Alvin sembra rigato dalla pioggia: quando Rose dice al padre dell'infarto di Lyle, sulla parola stroke un lampo scoppia in faccia ad Alvin che resta immobile. E Lynch inquadra da fuori, un po' dall'alto, la casa di Alvin e di Rose: è blu sotto i lampi, è come una casettina per gli uccelli.
Esterno giorno. Alvin ha rimesso in moto il tagliaerba rosso. Rose sta telefonando mentre lui passa seduto sul tagliaerba oltre le finestre di casa. Rose dice al telefono che Alvin non ha fatto nessun commento sul fratello, sono tutti e due testardi, quello che è successo tra loro (cos'è successo tra loro?) è accaduto anni prima, il 7 luglio del 1988, lei se lo ricorda bene. Alvin ripassa con il Rehds, si ferma nella cornice della finestra, si accende il sigaro. E andiamo in un altro mondo.
In lenta dissolvenza appare un innaffiatore, con il piccolo getto d'acqua sul prato. È sera. L'inquadratura è vuota. Solo il prato, l'innaffiatore e il dolce e malinconico motivo musicale. Momento lynchiano, indecidibile: da destra entra, sul prato, lentamente, un pallone bianco. Rose appoggiata alla finestra guarda fuori. Guarda nel vuoto. Guarda dentro di sé? Siamo a 15 minuti dall'inizio. Il tempo e la storia hanno un sussulto interiore. Rose guarda versa la sua destra, ancora più a destra. Chissà quante volte l'ha fatto di guardare da quella parte: si aspetta che arrivi qualcuno. E dalla destra entra nell'inquadratura un bambino, viene a prendersi la sua palla e se ne va. Rose è tutta presa dal suo ricordo: arriva Alvin, silhouette nel buio, e dice una di quelle frasi che segnano profondamente il film, che dicono una cosa e ne suggeriscono altre. Dice che vuole rimettersi on the road, deve andare da Lyle.
Ecco, qui il film trova la sua svolta, la prima di tante altre: Alvin deve rimettersi in viaggio e l'espressione è doppia. Deve viaggiare verso il fratello, ma deve anche go back on the road, deve ritornare sulla sua strada, deve rifare la strada della sua vita, deve ritrovarla. Andando verso Lyle, Alvin vuole ritrovare se stesso, vuole rifare il viaggio della sua esistenza: e il film sdoppia il suo percorso. C'è un obiettivo che è quello di andare a trovare un fratello (e riconciliarsi con lui) e c'è un secondo obiettivo, altrettanto fondamentale, quello di ripercorrere la propria vita. Un viaggio in avanti e un viaggio all'indietro. Alvin è vecchio e malato, ma adesso ha da fare un sacco di cose e due viaggi.
6. Fabrizio Tassi
Alvin deve andare, anche se non sa ancora come. La sua figura scura esce dietro una parete al centro dell'inquadratura, camminando verso la luce (siamo al 16'50"), e la sua uscita è resa ancora più lenta, solenne, dall'ombra che si trascina dietro, sulla parete gialla.
Uno stacco interrompe bruscamente la malinconia struggente di quella sequenza notturna, facendoci piombare dentro una commedia. Esterno giorno. Rose elenca tutti i motivi per cui Alvin non può partire: ci vede poco, non ha la patente, Lyle vive troppo lontano (317 miglia) e c'è quel problema alle anche, ogni volta che Alvin si alza fa "ooooh, uuuuh, aaah". Lui sorride. Mentre parlano, Rose e Alvin lavorano in giardino, separati in due diverse inquadrature (lei ancora non si rende conto che sta lavorando per la sua folle avventura).
La figlia va avanti e indietro, proseguendo il suo monologo molto sensato, elencando tutto ciò che il "mondo" può pensare di un'impresa del genere. Lo sa che Alvin non la ascolterà, che lui se ne frega del buonsenso (lui è il nostro eroe!), ma ci prova lo stesso: "Hai 73 anni, sei nato quando Calvin Coolidge era Presidente degli Stati Uniti". Eh sì, in effetti è proprio vecchio, chi diavolo si ricorda di Coolidge?
La risposta di Alvin, allegra e ovvia (di quell'ovvietà concreta, quella realtà evidente, di cui è fatto il film), non ammette repliche: "Rose cara non sono ancora morto". Che è un po' come dire: sì, certo, potrei starmene qui a sopravvivere tranquillo, nascondendomi dalla vita, ma io voglio vivere davvero, voglio completare il mio viaggio. Lo stacco sul totale li rimette insieme dentro la stessa inquadratura, rivelando il misterioso contesto: "Che cosa stiamo costruendo papà"?.
Stacco sui viveri. "Facciamo una festa?". Rose e la cassiera del supermercato non si capiscono. Salsicce e paté di fegato in realtà servono al viaggio di papà, che ormai è una certezza. Partirà per il Wisconsin ("Lì sì che sanno fare le feste!"). Ed eccolo, Alvin, dopo un altro stacco netto, mentre lavora alla sua impresa. Evidentemente ha deciso in che modo andrà da suo fratello. Lavora con la fiamma ossidrica, e la macchina da presa, spostandosi appena, ci mostra anche un ruota rossa, che poi vedremo girare per tutto il film.
Mancano solo gli ultimi acquisti, anche questi da fare con i modi e i tempi di una commedia country. A partire dal totale di un negozio, con i quattro amici di Alvin distribuiti dentro l'inquadratura, che lo guardano perplessi. "Senti Alvin, io non so dove vuoi arrivare, hai riempito tre taniche da 20 litri. 60 litri di gasolio!". Evidentemente vuole andare lontano.
7. Bruno Fornara
Faccio un saltino indietro. Quel tono da commedia che ha la scena, descritta da Fabrizio nel ping pong n. 6, di Alvin che prepara il suo rimorchio e Rose che gli ricorda tutti i suoi mali, è gustosamente sottolineato dalla corrispondenza tra il suono cigolante che fa il seghetto mentre Alvin taglia una sbarra di ferro e la litania balbettante di Rose che elenca le malattie del padre. Sembra che Alvin muova intenzionalmente e umoristicamente avanti e indietro il seghetto al ritmo della filastrocca di Rose. Alla fine, Alvin ride quando Rose imita lui che si tira dritta la schiena lamentandosi. Tra i due, sottolinea Lynch, corre un'intesa consolidata, c'è una solidarietà fresca, naturale. E Lynch si diverte ancora quando mostra le due facce disgustate, con una brutta smorfia, di Rose e della cassiera che odiano il paté di fegato.
Vado avanti. La sequenza nel negozio di ferramenta è piuttosto bizzarra. C'è Rose, che non interviene mai e si vede solo nella prima inquadratura. Ci sono quattro altre persone, tutti vecchietti ovviamente, che sospettano che Alvin abbia in mente qualcosa. Uno di loro, Sig, baffoni spioventi e aria da inquisitore di paese, chiede perché tutto quel gasolio. Alvin lo sistema con un “son of a gun” e subito passa ad altro.
Vuole comprare una pinza di quelle che servono a prendere qualcosa che sta su un ripiano in alto o a tirare su qualcosa senza abbassarsi (sta pensando alla sua schiena). Il padrone del negozio fa finta di non capire. Alvin gli indica il “grabber”, la pinza afferra-oggetti. «It's my grabber, Alvin» dice il negoziante con voce lamentosa, guarda i due grabber dietro al banco, dice che gli servono tutti e due. Alvin offre cinque dollari. Il commerciante dice che sono difficili da trovare, gli ci vorranno due mesi per far arrivare un'altra pinza, sta sudando, alza il prezzo a dieci dollari.
Perché tutta questa trattativa su un'asta afferra-oggetti? Perché a Lynch serve per arrivare alla battuta conclusiva. Alvin accetta i dieci dollari, il negoziante prende la pinza, se ne distacca con dispiacere, Alvin la prende e la prova. Quel ficcanaso di Gis chiede: ma a cosa serve ad Alvin quel “grabber”? E Alvin, bravissimo, laconico, perfetto: «Grabbin'». Ecco dove Lynch – e Alvin! - vogliono arrivare: a dire una cosa semplicissima, che un “grabber”, un utensile che serve per afferrare, serve appunto per afferrare.
Mi è sempre venuto da pensare che il percorso lungo tutta questa scena, quasi uno sketch, sia stato costruito da Lynch con uno scopo preciso: quello di fare di Alvin un personaggio, un uomo, del tutto pragmatico (un afferra-oggetti serve per afferrare oggetti) e quello di prendere un po' in giro se stesso. Lynch prende in giro Lynch. Lui che, nei suoi film ha sempre sciolto il troppo rigido reale nell'acido della indecidibilità, qui si arrende alla sana, semplice chiarezza del linguaggio e dell'esperienza. Alvin avrà bisogno di afferrare oggetti, quindi si compra un grabber. Le cose servono per fare ciò per cui sono state pensate, fatte e usate da sempre. Ci saranno poi nel film delle scene lynchiane (la donna che investe i cervi...), ma qui è il mondo delle cose come sono ad avere il sopravvento. Lynch si inchina e rende omaggio al suo Alvin. Realista. Effettuale.
Siamo arrivati a 21 minuti e 28 secondi.
8. Fabrizio Tassi
E adesso che diavolo fa? Dopo la scenetta del grabber (al minuto 21'30"), ritroviamo Alvin intento a lavorare (ancora!): lubrifica un giunto, sotto lo sguardo interrogativo e silenzioso della figlia. E' lei (è la nostra curiosità) a unire le due immagini che Lynch si diverte a tenere separate, per amplificare la sorpresa in arrivo. Quando si allarga l'inquadratura, finalmente capiamo: quel matto di Alvin ha deciso di unire un tosaerbe a un rimorchio troppo pesante, troppo grande, troppo pericoloso da trascinare per le strade d'America. La commedia sta per cedere il posto all'epica, all'avventura (umanista).
Ma intanto lo stacco ci scaraventa dentro un rumore cupo e l'apparizione di un mostro nella notte. Anzi no, non è un mostro, sono solamente dei silos. Però visti così, dal basso, mettono addosso una strana inquietudine. Ha ragione Bruno Fornara: "Una storia vera" è un film in cui le cose sono come appaiono (il mondo non è il simbolo di qualcos'altro, la vita non è metafora), e Lynch si diverte anche un po' a prendersi in giro. Ma è pure vero che Lynch è sempre Lynch, e anche senza apparizioni spaventose in cui incarnare le paure, anche senza i consueti labirinti visivi in cui liberare i fantasmi della mente, di certo non mancano i terrori, i dolori, le angosce, riportati alla loro realtà quotidiana, alla loro evidenza immediata.
Il controcampo dei silos è l'immagine pacifica di un vecchio e di sua figlia laggiù in fondo, quasi fossero inquadrati dal mostro-totem bonario che veglia su di loro. Il viso di lei è bellissimo, illuminato dalla luna. Alvin riporta le cose alla loro concretezza, come sempre: il rumore è quello del grano sollevato, non c'è nulla da temere. "E' tempo di mietitura", ribadisce lei, che prova a riportare la conversazione sul tosaerbe, il rimorchio, quel viaggio assurdo. "Rose, devo andare da Lyle", dice lui, semplicemente, indiscutibilmente. Anche il suo viso è bellissimo in quella luce. Stanco, malinconico, ma ispirato: "Credo che tu possa capire". Certo che capisce. Lo capiamo tutti.
Eccolo Alvin, che guarda in su e gli brillano gli occhi: "Guarda il cielo, Rose". E noi siamo lì, commossi, per la luce negli occhi di lei, per l'espressione di lui (l'affetto, la gioia semplice), mentre osserva le stelle che luccicano dentro lo sguardo di Rose. Cos'è il cielo? La parte migliore di noi? Le nostre aspirazioni? Gli ideali, le emozioni quelle vere, le cose che contano, la bellezza, l'al di là, l'altrove, il di dentro squadernato là fuori?
E se il cielo stellato fosse semplicemente un cielo stellato? Non è già tanto così?
Il buio del cielo si accende in un'alba. E' sempre un bel giorno per ricominciare a vivere.