Che cosa fa un politico durante la sua giornata? Fa riunioni, scrive, parla al telefono, magari prende parte ad alcuni comizi (sempre di meno oggi), scrive delle lettere, forse interviene in qualche seduta parlamentare. Insomma, attività che non sono esattamente le più incisive se le vediamo dal punto di vista cinematografico, dove è più efficace - lo sapeva bene Bresson - vedere il movimento dei corpi, i gesti, le azioni nello spazio e nel mondo. Un politico è essenzialmente un corpo che parla, anzi un corpo statico che parla - i movimenti impacciati della ginnastica mattutina che vediamo nel film di Andrea Segre (presentato in apertura della Festa del cinema di Roma) non fanno che renderlo ancora più evidente - e infatti alcuni dei più grandi film su uomini politici moderni, pensiamo a Young Mr. Lincoln di John Ford o Lincoln di Spielberg, sono essenzialmente film statici incentrati sulla parola.
Eppure, in Berlinguer l’uso della parola - indipendentemente dal giudizio politico che si può dare sul suo operato o sul suo ruolo storico - fu qualcosa di stupefacente. Basterebbe guardare o ascoltare cinque minuti di una sua qualunque intervista o un suo comizio per notare come l’estrema semplicità e accessibilità della forma del suo discorso si accompagnasse in modo quasi miracoloso alla profondità del pensiero, come si evince da una delle sue massime più celebri anche citata nel film («Il comunismo è a favore della difesa di tutte le libertà tranne una: quella di sfruttare il lavoro di altri»).
Berlinguer in effetti fu in questo senso una figura dal carisma atipico per un partito come il PCI che era tradizionalmente riluttante (diversamente dal PCUS) a “mediatizzare” i propri leader. Andrea Segre sceglie felicemente in questo film di rimanere molto fedele alla parola di Berlinguer, e infatti, a eccezion fatta per i pochi (e non sempre riusciti) momenti privati e famigliari, usa blocchi di citazioni dai suoi discorsi mantenendo una prosa che oggi suona ancora più inattuale nella degradazione del discorso politico contemporaneo.
D’altra parte, il doppio rischio di un film del genere era quello o del biografismo (cioè della riduzione della vicenda politica a sottoprodotto di quella individuale, come fa Eastwood in J. Edgar) oppure di quella specie di un po’ qualunquistica riduzione del potere a ipertrofico isolamento (“le stanze del potere”) come fa Sorrentino ne Il divo o in Loro. Segre sceglie invece la via della “razionalità”, per così dire, provando attraverso la rappresentazione della parola di Berlinguer a isolarne per quanto possibile il suo pensiero, preservandone, almeno in parte, la sua complessità.
Il prezzo da pagare è naturalmente quello di isolare Berlinguer dal contesto nel quale si trovava, a partire dalla sua istituzione di riferimento, e cioè il PCI, ridotto inevitabilmente a poco più che a una sua emanazione, nonostante qualche bella scena di dibattiti in sezione (dove Berlinguer è in contatto diretto e populistico col popolo, senza troppi quadri intermedi di mezzo). E infatti l’unica scelta davvero ingenerosa di Segre è forse la liquidazione di Ingrao (ma anche di altri leader, come Cossutta) a un paio di battute, parte di una più generale marginalizzazione del dibattito tra i dirigenti del PCI, di cui Berlinguer era membro ed espressione (e ci sarebbe molto da dire, sui limiti di una storia ridotta a storie di grandi figure) e nel quale la sua cultura politica si era formata.
Ma il film, infatti, è “berlingueriano” fino al midollo, a partire dalla sua scelta politico-interpretativa di fondo, e cioè di collocare le vicende tra il golpe del Cile del 1973 e l’uccisione di Aldo Moro del 1978, ovvero tra l’inizio e la fine della strategia del compromesso storico (altre scelte sarebbero state possibili, ad esempio non si dice nulla del celebre discorso sull’austerità). L’idea è che Berlinguer fosse convinto che una strategia di presa del potere da parte del PCI in Italia fosse in tutti i modi da evitare, soprattutto per il rischio di possibili ingerenze internazionali come era avvenuto appunto in Cile e come prima era avvenuto in Grecia o in Portogallo. A fronte di una sinistra troppo audace che rischiava di spingersi “troppo in là” era necessario mettere tra parentesi anche la strategia riformistica (ma filo-sovietica) del PCI degli anni Cinquanta e Sessanta, e trovare dei punti di accordo con la Democrazia Cristiana e il mondo cattolico (grande fu l’influenza di Franco Rodano su questa strategia). In questo senso il film sposa in pieno l’idea, molto in voga negli ultimi anni, di un asse bipartisan Moro-Berlinguer come possibile fuoriuscita progressiva dalla crisi che attanagliava l’Italia degli anni Settanta a fronte invece di una DC troppo collusa con corruzione ed eversione di destra (Cossiga e Andreotti, quest'ultimo mefistofelico e grottesco nel film) e di un PCI troppo filo-sovietico. La strategia “democratica” di Berlinguer venne definitivamente sconfitta dalle Brigate Rosse e dall’impossibilità di un qualunque accordo con la DC senza Moro.
Come conseguenza di questo taglio “interpretativo” vi è però un altro limite che caratterizza il film, e che è a un tempo politico e cinematografico. Nel Novecento, ma soprattutto in quella sequenza politica che sono stati i movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta della “sinistra diffusa” fuori dal PCI, è esistito un altro modo di fare politica che non era fatto solo di riunioni, lettere e discorsi parlamentari, ma anche di movimenti di piazza, consigli di fabbrica, rivolte sociali di tutti i tipi (anche attraverso l’uso della violenza che non fu solo delle Brigate Rossa, ma diffusa e sociale): un tipo di politica che anche “cinematograficamente” era differente da quella del PCI. Un tipo di politica fatta non solo di corpi statici che parlano, ma anche di corpi in movimento. O corpi, per usare un termine caro al movimento del '77, desideranti.
È noto come Berlinguer non fu mai molto tenero nei confronti della sinistra extra-parlamentare, che però rappresentava anche la parte più innovativa della sinistra italiana di quegli anni. Quando la strategia del compromesso storico fallì, la distanza generazionale e culturale tra il PCI e la cosiddetta “sinistra diffusa” era ormai così ampia da essere divenuta incolmabile: un fenomeno iniziato con la radiazione del gruppo de “il manifesto” nel ‘69, proseguito con la marginalizzazione degli ingraiani e che all’alba del movimento del 1977 si era ormai incancrenita. Per mostrare quello che, indipendentemente da come la si pensi, fu un nodo critico fondamentale nella crisi del PCI post-compromesso storico, il film decide di risolverlo solo con degli inserti di materiale d’archivio che dovrebbero mostrare i volti di quella società che stava cambiando e di cui non sempre Berlinguer seppe essere interprete. Il rischio che quelle immagini funzionino solo come “tappezzeria visiva” di quello che viceversa è un problema a un tempo politico ed estetico è molto forte.
Come si mostra la trasformazione della società italiana degli anni Settanta, dal momento che il suo processo di traslazione nella politica in un periodo di crisi della democrazia rappresentativa si era in qualche modo inceppato? Come si fa a vedere la relazione tra la crisi economica, politica e sociale nel momento in cui il PCI, nonostante il suo enorme consenso di massa, fatica a farsene espressione? È la mancata risposta a questo enigma che poi spianerà la strada dopo la marcia dei 40 mila di Mirafiori alla svolta neoliberale degli anni Ottanta, ed è un problema che dal punto di vista visivo è tutt’altro che facilmente risolvibile con la scorciatoia della “storia da raccontare”.
Berlinguer fu infatti anche una figura fortemente isolata, anche all’interno dell’apparato del PCI. È quello che dicono, tra gli altri, Lucio Magri e Luciana Castellina, quando spinti dall’adozione di una strategia da parte di Berlinguer per certi versi in discontinuità con il compromesso storico nei primi anni Ottanta, sciolsero il PdUP e tornarono nel PCI poco prima della morte di Berlinguer nell’84. Ma che ben presto si resero conto che il partito era ormai diventato qualcosa di profondamente diverso da quello di vent’anni prima e che Berlinguer era ormai diventato un estraneo nella propria stessa comunità.
E se il pensiero e la visione di Berlinguer non fossero tanto quelle di un visionario troppo avanti sui tempi (già oltre il duopolio PCI-DC, secondo la vulgata), ma espressione dell’ultimo esponente di una tradizione comunista del PCI la cui crisi era ormai irreversibile? E se quella di Berlinguer fosse un’elegia invece che una grande ambizione?
Se il film di Andrea Segre ha dei limiti non sono tanto da imputare al regista (che anzi, riesce a portare a termine un’operazione assai dignitosa a fronte di un progetto pieno d’insidie e a rischio di biopic o peggio fiction) quanto all’oggetto stesso: è esso stesso a essere fratto e riluttante ad essere tradotto in un’illustrazione. È la storia stessa che si presenta a noi non solo in una forma eminentemente testuale - perché è strutturalmente impossibile da ridurre a oggetto empirico - ma anche come immagine. Sta a noi interrogarla nel suo porci un problema più che semplicemente, come si dice spesso qualunquisticamente oggi, una “storia da raccontare”. Ma d’altra parte è questa la natura dell’immagine: non dice niente di chiaro o di indubitabilmente intellegibile. Eppure, spinge noi che la guardiamo a dover prendere parola.
Il ritratto di Enrico Berlinguer negli anni in cui tentò di realizzare il compromesso storico: il viaggio a Sofia, dove sfuggì a un attentato, l’URSS, il dibattito sul divorzio, le elezioni del 1975, la copertina sul «Time», gli incontri con Aldo Moro, e soprattutto gli operai, la famiglia, il mare, le sue parole.