Tra Padre padrone, Footloose e Il laureato. Sono questi i margini dentro i quali si muove DJ Ahmet, esordio nel formato lungo (e cinematografico) del trentasettenne di origine macedone (ma newyorchese di nascita) Georgi M. Unkovski, vincitore di un paio di premi, tra cui quello del pubblico, all’ultimo Sundance Film Festival. Unkovski vuole raccontare il peso gravoso della cultura tradizionale che entra in un conflitto insanabile, con punte di riuscita e lunare comicità, con la modernità che avanza, incarnata dalle nuove generazioni. Quella stessa modernità che per un pubblico (più) occidentale è intesa da tempo come modernariato ma che nella Macedonia montana, rurale e devota di un villaggio di etnia Yörük è un passaggio traumatico almeno quanto il lutto che ha recentemente colpito i protagonisti della storia.
Il quindicenne Ahmet ama la musica techno, come la madre da poco deceduta. Le ristrettezze familiari e la condizione del fratello minore Naim, muto come reazione al lutto patito, obbligano tuttavia il padre a ritirarlo da scuola per fargli accudire il gregge di venti pecore che rappresenta l’unica fonte di sostentamento familiare. Nel villaggio arriva anche Aya, la cui famiglia ha combinato un matrimonio con un ragazzo che non ha mai visto. Ahmet e Aya, inevitabilmente, s’incontrano.

Unkovski sviluppa il suo racconto di educazione sentimentale sfruttando con una certa abilità alcuni cliché inossidabili delle società in cui il passaggio tra epoche differenti è sempre specchio di una certa difficoltà di adattamento. E da tale difficoltà, come insegna molta commedia all’italiana dei tempi gloriosi di un cinema nostrano solo da rimpiangere, si origina il grottesco, che, come si sa, sottende sempre un retrogusto amaro, pronto a rivelarsi pirandellianamente per far cogliere in filigrana contraddizioni e un’eventuale osservazione criticamente acuta dell’intero sistema. Giocando sull’opposizione tra apertura dubbiosa e sacche di (persino brutale) resistenza, la regia pone i suoi confini intorno ai tre elementi citati in apertura: il patriarcato, la ribellione musicale in un ambiente apertamente conservatore e il tentativo articolato di impedire all’ultimo istante utile un matrimonio già definito, lasciando che i personaggi lottino per la loro libertà cercando di spezzare le catene che li vorrebbero immobili, inchiodati in una tradizione ferma da centinaia di anni.
Ancora più che nei confronti della religione, sempre presente ma trattata da Unkovski con rispetto e bonaria ironia (si vedano le scene, irresistibili, in cui il muezzin deve cambiare la password della sua e-mail, oppure quando decide di diffondere preghiere e musica dal minareto con gli altoparlanti), la conflittualità è tutta interna ai vincoli familiari, per l’impossibilità di opporsi a un destino che pare essere prescritto e non frutto di scelte personali che invece appaiono sempre obbligate. Unkovski ha il merito di descrivere questo conflitto immergendo i personaggi – grazie al direttore della fotografia Naum Doksevski – in un paesaggio insieme attraente e respingente: splendido nell’ambientazione inglobante, in cui la linea dell’orizzonte spesso schiaccia lo scenario montano; perlomeno interlocutorio quando quello stesso paesaggio mostra l’isolamento dei protagonisti non solo nello spazio ma anche nella dimensione del tempo, grazie a una profondità di ripresa che pare non avere una fine. Il tema dell’isolamento nella propria condizione è ribadito, con modalità ben più incisiva rispetto a una simbologia piuttosto elementare (si veda la pecora diversamente colorata), anche nell’uso accorto degli obiettivi, quando i personaggi sono spesso ritratti in piani ravvicinati con lenti a focale lunga per isolarli dal contesto, sfocando lo sfondo di cui fanno parte ma a cui sentono di non appartenere.

Al di là di questi apprezzabili accorgimenti e di un tono sempre leggero, capace di lambire il dramma senza farsene mai sommergere, Unkovski tende però a compiacersi spesso delle sue inquadrature, indugiando troppo sull’uso del ralenti nelle scene di ballo, mentre i protagonisti sono assorti nella ricerca di una propria personale cadenza rispetto al luogo in cui si trovano: una scelta involontariamente incongruente, perché mentre si affanna a sollecitare il senso di uno spaesamento dei giovani rispetto a un tempo in cui non si riconoscono, fa retrocedere istantaneamente il film a un’estetica da MTV vecchia di almeno una trentina d’anni, e proprio mentre MTV sta chiudendo definitivamente i battenti. Un elastico cronologico che fa sorridere, perché mostra quanto sia ardua la strada verso una completa emancipazione. Anche sul piano formale. E anche cercando di osservare tutto dall’alto.
Ahmet, un ragazzo di 15 anni proveniente da un remoto villaggio Yuruk nella Macedonia del Nord, trova rifugio nella musica mentre cerca di destreggiarsi tra le aspettative del padre, una comunità conservatrice e la sua prima esperienza amorosa con una ragazza già promessa ad un altro.