Dafne fa parte di quel gruppo, di quell’onda forse non imponente ma qualitativamente significativa, di titoli italiani che, in questi ultimi anni, crescono e si definiscono nel loro risultato finale seguendo un percorso produttivo particolare: opere che prendono forma da – e dentro a – un progetto di ricerca empatica condotta da parte del cineasta (quasi sempre regista e sceneggiatore insieme) sul contesto di riferimento e/o sui personaggi protagonisti della vicenda messa in scena. Film che costituiscono, a mio parere, la novità più interessante attualmente riscontrabile nel giovane cinema indipendente italiano.
Penso, per fare solo alcuni esempi, a Cuori puri di Roberto De Paolis, A Ciambra di Jonas Carpignano, Il cratere di Silvia Luzi e Luca Bellino e, naturalmente, al più recente La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi. Tutte storie che si sviluppano su relazioni o conflitti generati dalla diversità, sia essa culturale, etnica, sociale, nella dialettica tra i personaggi che di questa diversità sono portatori e l’ambiente in cui agiscono e interagiscono.
Anche nel film di Federico Bondi è la diversità a condurre il gioco: diversità cromosomica. Ma in questo caso, più che proporre domande è una diversità che offre risposte. Lo fa con determinazione e ironia, con la parola, con il gesto e lo sguardo, nel rapporto con le persone e con le cose: Carolina Raspanti, che interpreta Dafne, fa suo il personaggio facendo personaggio di se stessa e in tal modo “firma” il film consegnandolo al suo autore. In questo caso, come per i titoli citati prima, il merito del regista sta necessariamente nella sua capacità di restare fedele al senso del suo progetto sapendosi adattare alle condizioni dettate dalla peculiarità umana e ambientale con cui ha scelto di entrare in dialogo. E così lo “stile” va cercato all’incrocio delle mutevoli – e non sempre del tutto padroneggiabili – configurazioni in cui evolve, inquadratura dopo inquadratura, scena dopo scena, il rapporto tra intenzione originale e attenzione contingente.
Dafne ci racconta l’elaborazione familiare di un lutto importante, nel corso della quale da subito i ruoli appaiono ribaltati. A fronte dell’annichilita figura maschile/paterna, cui dovrebbe spettare per definizione il ruolo di guida e di sostegno, si afferma in termini decisivamente propositivi quella della figlia con la sua capacità di accogliere l’irruzione della morte e il dolore che questa porta con sé come eventi che fanno parte a pieno titolo della vita. Così come rifiuta ogni offerta di aiuto farmacologico che adulti “normali” credono in buona fede le siano necessari per attutire il primo impatto con la perdita improvvisa cui è costretta a far fronte, dopo il momento del pianto e dello sconforto, la giovane donna lascia che la quotidianità, il lavoro, le relazioni personali che questo porta con sé riaprano le porte al corso delle azioni, dei sentimenti positivi (in cui rientra in modo del tutto naturale anche l’esplicitazione del conflitto, quando occorre), alla riaffermazione di un sé che è prima di tutto un noi.
A questo segmento narrativo che si svolge nell’ambiente urbano (l’appartamento, le strade, il negozio, il supermercato) fa poi seguito la lunga e importante digressione conclusiva che, motivata a prima vista dal desiderio di “andare a trovare la mamma”, fornisce invece soprattutto l’opportunità a padre e figlia di riallineare le rispettive sfere emotive così diverse. Alla città si sostituiscono il bosco, i sentieri che lo attraversano e la necessità di percorrerli insieme impiegandovi tutto il tempo necessario: un repertorio di simboli immediatamente riconoscibile, se vogliamo, ma non per questo meno significativo, soprattutto per il modo con cui, ancora una volta, Dafne sa trasmettere loro la propria incontenibile energia vitale, donando un senso continuamente nuovo ai luoghi e agli incontri che durante il percorso si verificano.
Per arrivare al Dono conclusivo, che questa figlia straordinaria consegna al padre con un gesto che ancora sa sorprendere: come un’epifania, con la forza evocativa di una resurrezione che non a caso porta il film a chiudersi sul primo piano dell’uomo, destinatario commosso e sconcertato di questo richiamo alla vita tanto imperioso in tutta la sua miracolosa leggerezza.
Dafne ha trentacinque anni, un lavoro che le piace, amici e colleghi che le vogliono bene. Ha la sindrome di Down e vive insieme ai genitori, Luigi e Maria. L’improvvisa scomparsa della madre manda in frantumi gli equilibri familiari: Dafne è costretta ad affrontare non solo il lutto ma anche a sostenere Luigi, sprofondato nella depressione. Grazie all’affetto di chi le sta intorno, alla propria determinazione e consapevolezza, Dafne trova la forza di reagire e cerca invano di scuotere il padre. Fino a quando un giorno accade qualcosa di inaspettato: intraprenderanno insieme un cammino in montagna verso il paese natale di Maria, e, nel tentativo di guardare avanti, scopriranno molto l’uno dell’altra.