L'errore più grave, mentre si incassa il nuovo pugno nello stomaco di Steve McQueen, è ritenerlo un gran film storico.
Sia chiaro, è un grande, anzi grandissimo film, ma è l'antitesi dello "storico". Sempre si intenda la cosa come il ritratto di un'epoca chiusa, coi suoi negrieri carnefici archiviati dal tempo. 12 anni schiavo è tutt'altro. Certo, è la riduzione di quello che McQueen definisce "Il diario di Anna Frank" americano, storia verissima dell'uomo libero Solomon Northup rapito e venduto come una bestia (e come molti neri all'epoca; la maggior parte mai tornata a raccontarlo).
Ma lo sguardo del regista è troppo potente per limitarsi al lacrimevole: il suo occhio va dentro la schiavitù, ne squarcia le dinamiche, ne prolunga i suoni, ne scarnifica le strutture fino a scovarne gli alibi dentro la legge. Quella dei padroni, ovvio; può essercene un'altra?
Non c'è ripensamento morale di fronte al sacro diritto di proprietà, chi vacilla appartiene a un mo(n)do diverso. E quando arriva la salvezza è illusoria, individuale. Richiede delle scuse.
Cosa faresti se la ribellione coincidesse con la fine? Lungi dagli archivi della memoria, i semi del sopruso sono floridi e ancora giust(ificat)i. Questo è il miglior ritratto di una schiavitù immarcescibile. Di Solomon, mia. E tua.
(in collaborazione con Zero)
Stati Uniti. Negli anni precedenti la guerra civile americana, Solomon Northup, un nero nato libero nel nord dello stato di New York, viene rapito e venduto come schiavo. Misurandosi tutti i giorni con la più feroce crudeltà (impersonificata dal perfido mercante di schiavi Edwin Epps) ma anche con gesti di inaspettata gentilezza, Solomon si sforza di sopravvivere senza perdere la sua dignità. Nel dodicesimo anno della sua odissea, l'incontro con un abolizionista canadese cambierà per sempre la sua vita.