Il senso della vergogna è uno stile che siamo stati educati a esercitare, così come quello della morale, del pudore e della colpa. Ci viene insegnato che prima o poi la coscienza si fa sentire, chiedendo il conto. La civiltà quale rispetto del pensiero della tradizione, prima di ogni religione, prima dell’essere cristiano. Una tradizione, però, che risale a un passato talmente lontano da aver perso ogni connotato: la diamo per scontata, e viviamo dandole retta. Il sesso e i sessi, a questo proposito, dovrebbero rappresentare dei totem. E le dinamiche che li legano, esprimendone caratteristiche e privilegi, non sarebbero altro che un automatismo.
Ma Paul Verhoeven non c’è mai stato. E non ci sta neppure con Elle, che recupera in diversa forma i sismi del gender cercati e applicati soprattutto con Spetters (Spruzzi) (1979), Il quarto uomo (1984) e Basic Instinct (1992) (che sono i tre punti cardinali dell’intera filmografia del regista, senza i quali è difficile mettere in proporzione tutto il resto). Per una volta mi sia concesso un profondo autorialismo, perché Elle è un Verhoeven doc, di origine pura e controllata, a tal punto che adesso tutti i detrattori del regista olandese – che sono tanti, e che nel corso degli anni l’hanno costantemente accusato di sessismo, maschilismo, volgarità, semplicismo, superficialità etc. – potrebbero benissimo tornare sui loro passi e riflettere con più coerenza e pace su una poetica del corpo e dei suoi segni non meno fondamentale di quella ben più celebrata di Cronenberg.
Elle è ancora una volta un film verhoeveniano che sceglie di guardare la relazione fra gli individui minandone alla base certezze e rassicurazioni. Saltano per aria borghesia e fede, figure retoriche e voti, immagini sacre e immagini etiche. Il significato vero della realtà di Verhoeven non è banalmente né il nonsense né il grottesco, bensì la negazione a priori di ciò che ormai è consueto chiamare – con un certo qualunquismo – correttezza politica, e che potremmo meglio definire ideologia sociale. In Elle non c’è niente che vada per il verso normale, scontato, previsto, documentato; azioni e reazioni si producono a partire da una violenza, cioè uno strappo alla norma, la rottura di un credo fondato su secoli di buon senso e di buona creanza.
Come in Spetters (Spruzzi) e in Il quarto uomo Verhoeven rompeva con prepotenza iconografica la maggior parte dei luoghi comuni rituali dei sessi, e come in Basic Instinct (il suo capolavoro hollywoodiano, un testo fondamentale sia per il genere da cui attinge, sia per l’importanza del suo intervento sul gender) egli inquadrava con acume ineguagliato e dall’interno la deriva dell’idea americana di verità, così in Elle viene messo in scena lo squarcio ghignante dell’educazione al giusto. Non si salva nessuno, né le donne (ed è straordinaria la scelta di casting di Isabelle Huppert) né gli uomini, né le mogli né i mariti, né le madri né i padri né i figli, non si salvano né le loro icone né i loro emblemi; non c’è pietà e non c’è perdono, perché formule condizionate e calcolate; l’orrore e la mostruosità sono facce senza volto perché smarriscono il loro termine di paragone. Verhoeven chiude il film poco casualmente in un cimitero: alla larga da qualunque dottrina, per lui la contemporaneità è ancora un posto per seppellire culti e credenze, principi e convinzioni, lo spazio adibito a spezzare i dogmi e a intombarne le sentenze.
Il film racconta di Michelle, capo di un'azienda che produce videogiochi. Un giorno viene attaccata in casa sua da uno sconosciuto: rintracciarlo diviene presto per lei un'ossessione.