Se proprio si vuole guardare indietro al passato, allora è bene farlo con qualcosa da dire. Non che sia un peccato mortale scomodare i classici, ma forse è giunto il momento di mettere da parte gli omaggi, le citazioni e i richiami e di tornare a parlare del qui, ora. Soprattutto per quanto riguarda l’horror e soprattutto se, come nel caso di Ghost Stories, alla fine la patina d’antan si rivela solamente una facciata: ma andiamo con ordine.
Il cinema horror a episodi, altrimenti noto come omnibus, oppure anthology. Indipendentemente da come lo si voglia chiamare, una delle realtà più orgogliosamente (e genuinamente) conservatrici del genere a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quando la rivoluzione copernicana (romeriana?) interna al cinema fantastico ne aveva ampliato a dismisura gli orizzonti, accantonando con forza i mostri classici della tradizione letteraria europea (che ormai appartenevano al passato) per mettere in risalto forme di orrore più concrete e reali. Appena un attimo prima di soccombere dinanzi all’avanzata inarrestabile del new horror, appena un momento prima che la Hammer, la Amicus e la Tigon chiudessero i battenti, però, quel vecchio cinema resisteva e dimostrava di avere ancora qualcosa da dire. E lo faceva attraverso una delle sue caratteristiche fondamentali: la capacità di perseguire un ideale di Bellezza. Soprattutto in Europa, e soprattutto in Inghilterra, quel cinema raccontava di mostri e di cripte, di cimiteri e di nebbie che offuscavano la visione perché credeva fortemente nell’intima bellezza e nella sconfinata poesia dei suoi elementi. Nella potenza primigenia del racconto, che proprio nella formula a episodi poteva trovare quella dimensione ludica senza la quale il fantastico non può definirsi tale.
Se Ghost Stories delude, è perché vorrebbe tornare ai fasti di quel cinema utilizzando invece gli stilemi più triti e consumati del peggior horror contemporaneo. È possibile che oggi ancora si rimanga ancorati a un immaginario fatto di apparizioni improvvise, tonfi in colonna sonora, porte che sbattono e altri jump scares per liceali annoiati? A cosa serve rievocare nostalgicamente una struttura narrativa comprensiva di cornice tra i vari episodi e di twist in chiusura, se tutto sembra scritto a tavolino soltanto per stupire a buon mercato?
Si fa presto a tirare in ballo i classici della Amicus, quando titoli come Tales from the Crypt, Vault of Horror e Asylum il colpo di scena finale lo liquidavano in cinque minuti, e di certo non ci costruivano intorno mezz’ora di film per allungare il brodo. Perché per registi come Freddie Francis e Roy Ward Baker l’importante era tutto quello che veniva prima: le storie, le atmosfere e i personaggi, tutte cose di cui evidentemente a Ghost Stories importa poco o nulla (messi insieme, i tre segmenti che lo compongono costituiscono meno della metà del film) nonostante faccia di tutto per convincere del contrario.
Alcuni diranno che Ghost Stories va difeso in quanto omaggio: qui invece crediamo che di omaggi ne abbiamo già avuti abbastanza. E allora questo non sarà il peggior cinema horror possibile, ma certamente allunga le fila (già numerose) del cinema horror più inerte e innocuo.
Il professor Goodman è un docente di psicologia che non crede ai fenomeni soprannaturali. L’arrivo di una misteriosa lettera che contiene informazioni si tre casi mai risolti lo porterà a imbarcarsi in un viaggio alla scoperta di ciò che non può essere spiegato razionalmente.