Clint Eastwood

Giurato Numero 2

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La relazione imperfetta tra verità e giustizia è una costante del cinema di Eastwood, da Fino a prova contraria fino a Richard Jewell ma in qualche modo sottesa a tutti i suoi film (Gli spietati).

Negli anni, che ormai sono più di cinquanta dalla sua prima regia e che hanno costeggiato tutte le possibili crisi, autocritiche e disillusioni della società statunitense attraverso l’immagine filmica, ha saputo chiarire (fermare?) la distanza tra il suo lavoro autoriale e l’ideologia che lo occupa (di cosa faccia Clint lontano dalla macchina da presa ci interessa il giusto, cioè nulla) definendosi in modo sempre più preciso come un essere morale, piuttosto che un moralista.

Fino a Cry Macho ha condiviso l’idea semplice di un mondo diviso in due. Da una parte quelli che hanno ragione, dall’altra quelli che hanno torto.

Soprattutto da quando William Munny si è messo contro lo sceriffo Little Bill Dagget (Gli spietati), da quando Butch Haynes si è tirato dietro l’FBI per tutto il Texas. Avevano ragione il ladro gentiluomo Luther Whitney (Potere assoluto), che se la prendeva addirittura con il Presidente degli Stati Uniti, il giornalista ex alcoolizzato Steve Everett (Fino a prova contraria), l’allenatore Frankie Dunn (Million Dollar Baby). Naturalmente avevano ragione Walt Kowalski (Gran Torino), Earl Stone (The Mule) e Mike Milo (Cry Macho), che trasportava droga pur di pagare gli studi alla nipote. E Chesley Sully Sullenberger, i tre soldatini di Ore 15:17 – Attacco al treno, Richard Jewell, e pure Chris Kyle, l’American Sniper.

Per chiudere con ogni probabilità (ma sperando nella possibilità del contrario) la sua carriera ha compiuto un piccolo scarto a lato, interrogando direttamente quel sistema giudiziario che “non sarà perfetto, ma è il migliore che abbiamo”.

Un po’ a corto di immagini, affida il racconto alle parole, a suo agio più che costretto nelle regole di un genere di per sé sentenzioso come il legal drama, e queste parole sono pesanti, nelle arringhe, nei motti icastici ripresi come didascalie (“In God we trust”…e in poco altro), negli scambi tra i personaggi.

Non sempre la giustizia è verità, e la verità è giustizia.

A maggior ragione quando abbiamo un giovane uomo con un passato difficile di alcolismo, al quale è stata offerta una seconda chance (nel giornalismo) da non perdere, con una moglie da tenersi stretta (e da cui non farsi lasciare) e una figlia in arrivo, da non deludere, almeno così presto: semplice riconoscere nel Justin Kemp interpretato da Nicholas Hoult, una versione giovane, un sé stesso ancora inchiodato dagli errori e dal dubbio, dello Steve Everett di Fino a prova contraria e poi di tanti personaggi eastwoodiani.

Facile ma già emozionante, soprattutto pensando a come il Mike Milo di Cry Macho (l’ultimo film di Eastwood attore) non si limitava a evolvere la linea narrativa ed esistenziale di Million Dollar Baby, Gran Torino e The Mule, ma addirittura citava, ribaltandola, la scena dell’auto di Un mondo perfetto, proponendone (di padre ereditato in figlio ereditario) un possibile capovolgimento, o redenzione.

Ma Justin, a differenza di Steve, non scova un errore giudiziario a cui porre rimedio ma è esso stesso un errore, uno scarto, un fraintendimento, un maledetto accidente: viene selezionato per partecipare a una giuria popolare e, all’inizio del dibattimento, pensa che lui potrebbe essere l’assassino.

Ne deriva che l’imputato potrebbe essere (l’)innocente e che la sua scelta per il verdetto si rivelerebbe scorretta, o deflagrante.

Se James Sythe viene giudicato colpevole allora Justin Kemp è salvo, se James Sythe viene giudicato innocente, allora qualcuno potrebbe farsi venire voglia di cercare il vero colpevole. Magari uno Steve Everett qualsiasi, giornalista che segue il processo, di sicuro un certo Clint Eastwood che veglia sulla giustizia e sulla morale degli Stati Uniti, dagli anni ’70 o giù di lì.

Questo è il dilemma. Ma (c’)è anche (ne) il trailer del film. È il concept di un buon legal drama, ma quello che interessa non è la semplice risoluzione, o la soluzione.

Perché Eastwood (che come sempre i suoi film non li scrive, ma questo Jonathan A. Abrams alla sceneggiatura ci piace pensarlo come nulla più che un dattilografo), al binomio verità-giustizia aggiunge un termine nuovo, quasi del tutto inedito nella sua filmografia, e quindi ancora più straordinario, sorprendente, doloroso, proprio adesso, alla fine.

Aggiunge la ragione. Non come indice di razionalità, ma come reason why, “ragion per cui”, motivazione, spinta individuale, e individualistica.

Tutti hanno una buona ragione per condannare Sythe.

Kemp, che può tornare alla sua (seconda) vita felice, alla sua carriera di giornalista locale di lifestyle, ex alcolista con il gettone della sobrietà sempre in mano (e per questo facile a cadere in terra). Finalmente padre, dopo un aborto spontaneo della moglie, e soprattutto marito adorato di/da una donna fantastica. Anche se sappiamo quanto possano essere terribili le donne fantastiche della cinematografia di Eastwood, da Beguiled a Gli spietati a Gran Torino, talmente eccezionali da far vivere come una condanna la strutturale inadeguatezza del maschio, comprensive e fiduciose fino al tormento.

Il pubblico ministero Faith (in God we trust) Killebrew (Toni Collette), che vincendo questo caso di femminicidio guadagnerebbe anche le elezioni a Procuratore Distrettuale, e potrebbe fare tantissimo bene, a tantissime donne, grazie al suo programma di tolleranza zero nei confronti di ogni forma di mascolinità tossica.

C’è poi una donna borghese bianca appassionata di processi (è alla sua terza esperienza) che vorrebbe portare a casa in dote al marito un bel verdetto rotondo (i primi due le sono stati annullati, accidenti), un volontario nero che ha perso il fratello per colpa della gang di spacciatori a cui apparteneva l’imputato, una guidatrice di bus nera che vuole tornare dai suoi figli, una svampita sbiancata che ha fretta di tornare a scegliere scarpe e borse, una casalinga bianca e di mezza età appassionata di true crime in tv.

Per inciso: che cos’è un true crime? Da categoria della filosofia del diritto, a punto discriminante della filmografia di Eastwood (è il titolo originale di Fino a prova contraria), a prodotto di consumo del factual entertainment, infine dilemma inestricabile.

C’è poi uno strano personaggio, interpretato meravigliosamente da J.K. Simmons, faccia perfetta come tutte le altre, un certo Harold, ex poliziotto dai modi (si intuisce) spicci (un po’ Harry Callaghan), ora fioraio (come l’Earl Stone di The Mule), che sembra mosso da un imperscrutabile desiderio di giustizia ma che si rivela presto, uscendo dalla giuria e dalla storia, un semplice pensionato in cerca di distrazione, come per avere ancora un ruolo, fuori tempo massimo, in un film, in un cinema antico. Classico.

O un avvocato di grido (Kiefer Shuterland), ex alcolista, anima del solito circolo pieno di buone intenzioni dei consumatori della fine, e del fondo, della bottiglia, ma votato a un cinismo cristallino (“dammi un dollaro, e scatterà il segreto d’ufficio…”).

Se il film, nella prima mezz’ora, si dilunga così tanto a descrivere il sistema giudiziario della Georgia e le regole della composizione della giuria non è per senile pignoleria, ma per iscrivere all’interno del dilemma etico la particolarità dell’individuale. E dell’individualismo.

A chi venisse da obiettare sulla scarsa credibilità di un processo consumato in una piccola comunità di cui il nostro giurato #2, prima di accettare l’incarico e trovarsi stritolato dal dramma non sapeva nulla, la risposta è semplice: si può essere giornalista e non avere nessun interesse per la cronaca, si può essere poliziotto senza pensare di impegnarsi troppo nelle indagini, si può essere pubblico ministero senza mai aver dato un’occhiata alle prove.

Non è storia (discutibile) del film: è Storia.

Qualcuno ha avuto una relazione o conoscenza con l’imputato prima di oggi? Chiede il giudice.

È stato passeggero del mio bus, risponde la giurata.

Tutto qui, nient’altro.

Se fino a Richard Jewell, oltre alla differenza tra bene e male, restava (dava il resto) una polarità forte tra azione individuale e potere politico (il mondo si divide anche tra lo Stato e gli “stronzi che lavorano per lo Stato”), qui la tensione è tra singolarità che agiscono in mezzo, o intorno, la costruzione di una comunità: giudiziaria, sociale, politica.

Eastwood non è Hobbes, non fa teoria ma solo pratica, eppure questo Giurato #2 è un apologo finale sull’individualismo come alternativa alla verità e la giustizia, come propellente unico del sistema socio-culturale statunitense. O ancora meglio (o peggio) su come una singola individualità possa essere disumanizzata da una somma aleatoria (la giuria, come combinazione di traiettorie centrifughe) di altre individualità equipollenti.

Che sia uscito adesso è una condanna, o un dono, o un testamento, da qualunque prospettiva lo si voglia guardare.

La regia è essenziale, anche un po’ stanca, ridotta alle regole elementari della trasparenza classica, ma rende ragione di un’ossessione entropica verso la dialettica sterile del confronto in interni. Non c’è sguardo fuori, oltre, se non in qualche inquadratura di transizione in paesaggio naturale e architettura urbana, ai confini con gli stacchi della sit-com.

Per i due film precedenti avevo scelto una formula cinefila (innamorata): l’urgenza del racconto è più forte della messa in scena. Probabilmente Eastwood disprezzerebbe tale condiscendenza.

Cry Macho, l’ultimo da interprete, si concludeva con un Clint finalmente ricongiunto con tutti i suoi personaggi, quietato in un altrove spaziale, storico e relazionale. Pacificato.

Giurato #2, dopo aver posto il suo dilemma forse più destabilizzante di sempre, chiude con la soluzione perfetta.

Se davvero questo sarà l’ultimo film di Eastwood, allora (ci) sarà anche la più grande chiusura artistica della storia del cinema (l’emozione non è solo mia, tanti l’hanno provata, come un brivido, in sala, Filippo Mazzarella me l’ha detta per primo, e siccome i critici sono solo giurati popolari, a estrazione del cinema, devo riconoscergli il primo voto nell’urna).

Che rapporto c’è tra verità e giustizia?

Che rapporto c’è tra verità, giustizia e individuo?

Campo.

Controcampo.

Nero.


 

 

 

Giurato Numero 2
Stati Uniti, 2024, 114'
Titolo originale:
Juror #2
Regia:
Clint Eastwood
Sceneggiatura:
Jonathan A. Abrams
Fotografia:
Yves Bélanger
Montaggio:
David S. Cox, Joel Cox
Musica:
Mark Mancina
Cast:
Nicholas Hoult, Zoey Deutch, Megan Mieduch, Toni Collette, Melanie Harrison, Adrienne C. Moore, Drew Scheid, Leslie Bibb, Hedy Nasser, Phil Biedron
Produzione:
Dichotomy Films, Gotham Group, Lightnin' Production Rentals, Malpaso Productions, Warner Bros.
Distribuzione:
Warner Bros Italia

Un giovane prossimo a diventare padre di famiglia è convocato come giurato in un processo per omicidio. Si troverà alle prese con un dilemma morale che potrebbe influenzare il verdetto della giuria e potenzialmente condannare - o liberare - l' imputato.

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