«Grazie a Dio, i fatti a cui si fa riferimento sono tutti prescritti». Queste parole si lascia sfuggire il Cardinale Barbarin, legato di Lione e primate delle Gallie, durante la conferenza stampa che lo obbliga a prendere posizione pubblica rispetto a fatti, gravissimi, di pedofilia. Un giovane giornalista gli fa notare allora senza attendere neppure un secondo che si sta parlando di crimini reiterati e che ringraziare Dio è decisamente fuori luogo: benché la cornice sia un auditorium modernissimo a Lourdes, la prescrizione non è una grazia, né, tantomeno, un miracolo.
Proprio quelle parole fuori luogo, “sfuggite” nella realtà e puntualmente riprese nella finzione, danno il titolo al nuovo film di François Ozon: Grazie a Dio, infatti viene proprio da questo benedetto imbroglio di parole, che diventa in un istante lapsus rivelatore. Altrettanto rivelatrici sono le parole che risuonano simmetricamente nella sequenza successiva: «Grazie a voi tutto ciò è stato possibile» viene detto ai membri de “La parole liberée”, l’associazione che riunisce le vittime di padre Bernard Preynat, pedofilo recidivo, che puntando sull’enfasi mediatica hanno progressivamente scoperchiato un pozzo, l’ennesimo, di abiezione in tonaca nera. Quella conferenza stampa, questo film, sono stati possibili grazie a loro. Grazie a loro infatti è stato riaperto un caso tenuto in ombra per un quarto di secolo, in un saldo sistema di omertà e connivenze, in primis dalle stesse gerarchie di quella Chiesa che sembravano accordare alle vittime ascolto e sostegno.
Sembravano accordarlo. Perché tanto Barbarin quanto Régine Maire, psicologa, religiosa laica e biblista di impostazione gesuitica che lo affianca raccogliendo le testimonianze di chi ha subito le violenze da parte di padre Preynat, non sono interessati a ottenere una sua piena confessione quanto piuttosto il pentimento: non dunque una giustizia terrena, laica, con la conseguente interdizione dagli uffici religiosi quanto piuttosto il perdono da parte delle vittime.
Ozon lavora sulla cronaca, e, nel suo caso, si direbbe un fatto del tutto nuovo; come d’altronde sembra inedito, per lui, questo ruolo di autore civilmente impegnato. Inizialmente pensa a un documentario, e in tal senso comincia a lavorare. Ma i suoi stessi testimoni, di fronte al successo de Il caso Spotlight, cominciano a immaginare la fiction come soluzione (e come cassa di risonanza). A quel punto Ozon organizza, argomenta, la cronaca come una ronde, come una composta reazione a catena. E riesce anche, sopratutto rispetto ai parametri usuali del suo cinema, a essere estremamente misurato; e gli si perdonano delle sottolineature didascaliche nel montaggio, subordinate a un’urgenza di chiarezza estrema. Riesce a tenere il cast in maniera sorprendente, avendo come obiettivo quello di evidenziare la fragilità, la contraddittorietà dei suoi personaggi, tutti irreparabilmente rotti, ognuno a suo modo, dal trauma della violenza, e a ogni personaggio, a ogni trauma, fa corrispondere uno scarto stilistico. Comincia da Alexandre (Melvil Poupaud), professionista altoborghese, padre di cinque figli, la cui moglie insegna in un collegio cattolico; non è esattamente nemmeno lui il testimone α, un conoscente, facendogli notare che Preynat lavora ancora a stretto contatto con i bambini, riattiva in lui una memoria, accantonata se non rimossa, che lo spinge a scrivere alla curia lionese: una corrispondenza (il vero Alexandre ha concesso le lettere a Ozon) le cui parole diventano un voice-over quasi bressoniano nel primo segmento del film. Il racconto procede e proprio quando si pensa di essere di fronte al protagonista di un film che ha disegnato chiaramente le sue coordinate, con uno scarto inatteso Ozon passa il testimone al costruttore François (Denis Ménochet), dapprima restio a riesumare una vicenda che considera sepolta, e che finisce invece per diventare il motore del movimento; da lui si risale al medico Gilles (Éric Caravaca) per approdare infine a Emmanuel (Swann Arlaud), di estrazione sociale completamente differente rispetto agli altri, che all’epoca degli abusi era semplicemente il figlio di una fervente cattolica. Emmanuel è colui che ha subíto in maniera più tangibile le conseguenze degli abusi, tanto da esserne segnato nel fisico oltre che nella psiche e assomma in sé caratteristiche ed episodi di varie altre vittime. Ancora più forte, in questa luce, è la scena del suo confronto con Preynat al commissariato, al culmine della quale, Emmanuel nega al prelato il perdono: fuori dal confessionale, il perdono, l’assoluzione, non hanno giurisdizione, la parola non cancella il crimine.
Perché Grazie a Dio, pur nella sua solida classicità, è un film sulla liberazione della parola, come ricorda il nome dell’associazione da cui tutto ha preso le mosse, anzi un film dove il valore della parola è continuamente messo alla prova; anche, per stilizzazione e sottrazione, attraverso i flashback, immagini saponificate che valgono come costante, incerta, verifica della testimonianza appena fornita a parole. Ancor di più, nella dolorosa negazione di una risposta, nel silenzio tagliente, affilatissimo, del finale.
Alexandre vive a Lione con moglie e figli. Un giorno, per caso, scopre che il prete dal quale era stato molestato da piccolo lavora ancora a contatto con i bambini. Decide così di agire, supportato da altre due vittime del parroco, François e Emmanuel. I tre uomini uniscono le forze per abbattere il muro di silenzio che circonda il loro dramma. Nessuno di loro sarà però indenne da ripercussioni e conseguenze.