Quattro giorni alla ricerca di un’identità e di un passato. Che poi sono la stessa cosa. Quattro giorni di tempo per conoscere il "mondo", le sue bellezze ma anche le sue insidie.
Siamo nella Polonia di inizio anni Sessanta. Anna è una giovane orfana cresciuta tra le mura di un convento. Le sue giornate, scandite da cene frugali a lume di candela, sono finora trascorse nel silenzio della preghiera. Sta per diventare suora, ma prima di prendere i voti viene mandata per alcuni giorni in visita presso l’unica parente ancora in vita, la zia Wanda, sorella della madre, affinché rifletta un’ultima volta sull’autenticità della sua vocazione. Poi dovrà decidere. E sarà per sempre.
L’incontro tra le due donne segna però l’inizio di un misterioso viaggio nella memoria: in quella di una giovane ragazza a un bivio della propria esistenza e in quella di un’intera nazione (che non ha ancora fatto i conti con l’antisemitismo di epoca nazista, e poi staliniana). Anna scopre infatti di essere ebrea, che il suo vero nome è Ida, e che qualcosa di misterioso è accaduto nei primi anni della sua infanzia.
Il regista polacco Pawel Pawlikowski (classe 1957), dopo essersi cimentato con il documentario e in film per la televisione, nel suo quarto lungometraggio (prima c’erano stati Last Resort, My Summer of Love, La Femme du Wème), affronta temi delicati e importanti come quelli dell’identità, dei legami di sangue, della fede e del senso di appartenenza, che lui stesso ha vissuto in prima persona («Ho conosciuto varie forme di esilio per gran parte della mia vita» si legge in una sua intervista).
Presentata all’ultima edizione del Torino Film Festival, Ida è opera singolare e inconsueta: Pawlikowski ricorre a un bianco e nero luminoso, pieno di contrasti, sceglie il formato 1.37:1, quello dell’era classica del muto, con poche panoramiche, scarsa profondità di campo, attenzione maniacale all’equilibrio compositivo delle inquadrature (evidente il debito con Dreyer e Bresson).
A dispetto di una contrapposizione simbolica dei ruoli fin troppo netta (Wanda è una sensuale donna di mezza età, si incontra con vari uomini, fuma di continuo e beve spesso; Ida è figura eterea e sacrificale, tiene gli occhi sempre bassi e parla poco), le due donne impareranno a conoscersi, forse a comprendersi. Al fascinoso Lis, giovane sassofonista che fa l’autostop e a cui Wanda e Ida danno un passaggio in macchina fino in città (siamo vicino a Lublino), il compito di incarnare le tentazioni del mondo terreno, con le note di musica jazz che contrappuntano il silenzio desolante dei paesaggi filmati da Pawlikowski, brumosi, grigi, malinconici. Dopo essersi riconciliata con il proprio passato – pagando il costo di altre esperienze dolorose – Ida sceglierà quale strada imboccare...
In ottanta minuti scarsi, Pawlikowski ci parla con delicatezza e misura (ma anche con qualche schematismo di sceneggiatura) del conflitto tra vita laica e vita religiosa, fino a tratteggiare due psicologie femminili ricche di ombre e di sfumature. Con le immancabili note finali di Bach (la cantata Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christi, "saccheggiata" da plotoni di registi, Mamoulian in Dottor Jekyll, Tarkovskij in Solaris, Haneke in Amour, Lars von Trier in Nymphomaniac...)
Con il suo stile rarefatto, il richiamo "alto" a suggestioni etiche e religiose, Ida si rivela un potente dramma intimo, ma anche un’opera di affettuosa derivazione "patriottica": le sequenze in convento sono non a caso una citazione esplicita da Madre Giovanna degli Angeli di Jerzy Kawalerowicz, uno dei padri del cinema polacco del secondo dopoguerra.
Polonia, 1962. Anna è una giovane orfana cresciuta tra le mura del convento dove sta per farsi suora: poco prima di prendere i voti apprende di avere una parente ancora in vita, Wanda, la sorella di sua madre. L’incontro tra le due donne segna l’inizio di un viaggio alla scoperta l’una dell’altra, ma anche dei segreti del loro passato. Anna scopre infatti di essere ebrea: il suo vero nome è Ida, e la rivelazione sulle sue origini la spinge a cercare le proprie radici e ad affrontare la verità sulla sua famiglia, insieme alla zia. All'apparenza diversissime, Ida e Wanda impareranno a conoscersi, e forse a comprendersi: e, alla fine del viaggio, Ida si troverà a scegliere tra la religione che l’ha salvata durante l'occupazione nazista e la sua ritrovata identità nel mondo al di fuori del convento.