Sono tre donne afroamericane nel ’61, alle prese con la questione razziale, Kathrine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson. Sono tre madri, tre compagne, tre lavoratrici in carriera. E poi – ancora – sono tre prodigi della matematica, assunte alla Nasa. Figure reali, le protagoniste di Il diritto di contare di Theodore Melfi si presentano quindi come la perfetta celebrazione per la Festa della donna (non a caso il film esce l’8 marzo).
Candidato a tre premi Oscar – come Miglior film, Miglior attrice non protagonista e Miglior sceneggiatura non originale – e tratto dall’omonimo libro di Margot Lee Shetterly, il film non è riuscito a portare a casa alcuna statuetta. Pena, forse, la scarsa originalità e incisività rispetto al panorama degli ultimi anni. Eppure non può dirsi certo privo di forza, nel suo affiancare razzismo e diritti di genere.
Kat (Taraji P. Henson), Dor (Octavia Spencer) e Mary (Janelle Monàe) sono inizialmente in tutto e per tutto le “figure nascoste” di cui parla il titolo originale: trattate, nonostante il loro talento nella matematica, alla stregua di computer (tanto che, con la comparsa alla Nasa dell’IBM 7090, rischieranno di essere rimpiazzate da un banale sistema di circuiti e pulsanti), le tre dovranno dimostrarsi insostituibili, essenziali, secondo quel famoso principio ancora vigente, per cui una donna è costretta a provare capacità maggiori rispetto ai colleghi di sesso maschile. Kat, vero genio del calcolo, entrata a far parte dello Space Task Group durante la missione Mercury-Atlas 6 che manderà il primo americano in orbita, pur collaborando con gli ingegneri e svolgendo le loro stesse mansioni, non ha il diritto di firmare le scoperte e di vedersi riconosciuto il lavoro svolto. Dor, in quanto donna di colore, non può ambire a una promozione o a supervisionare un team. Mary, per le stesse “tare” impostegli dalla natura, non può iscriversi all’università e conseguire la laurea.
Tutti diritti basilari, questi, che – oggi ci sembra quasi irreale – vanno a sommarsi all’impossibilità di usufruire dei bagni (se non di quelli colored, per gente di colore) o di bere un caffè uscito dalla stessa thermos della quale poi dovranno servirsi i bianchi. Diritti per i quali le tre donne, nel loro piccolo, esemplare mondo, si battono strenuamente, imponendo la loro voce, il loro talento, la loro astuzia, gettando le basi per un cammino che molti dei loro collaboratori seguiranno: uno su tutti il direttore del progetto spaziale, Al Harrison (interpretato da un Kevin Costner che finalmente abbandona la pubblicità per tornare al cinema), che ben presto si batterà per l’abolizione della segregazione all’interno degli uffici.
Una lotta che nel film si cerca di rappresentare con serietà, naturalezza – non ci sono grandi, eclatanti gesti eroici, ma piccole conquiste e collaborazioni tra esseri umani – e con leggerezza, senza tralasciare inoltre una certa vena ironica, come nel proclamare il “diritto di apprezzare la bellezza negli uomini bianchi” al momento della conoscenza con l’affascinante John Gleen (Glen Powell), astronauta incaricato della missione.
Una storia di genialità mai egoistica e avida, ma anzi fondata tutta sulla collaborazione di un trio, Il diritto di contare. Una storia di parità razziale e ancora – e prepotentemente – di parità di genere. Perché una donna, anche negli anni ’60, ha il diritto di valere (o di contare, per usare lo stesso gioco di parole matematico voluto per il titolo italiano) quanto un uomo, anche quando un marito la accusa di non saper educare i propri figli perché il lavoro tiene troppo a lungo lontane da casa, o quando teme di non potersi rifare una vita con un nuovo compagno, dopo la scomparsa del primo. Un obiettivo conseguito con sacrificio e determinazione, che nessuna donna, oggi, può dimenticare. Anche e soprattutto nella sua festa (che val ben più di una serata allo streap club).
La vera storia di Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson, tre scienziate afro-americane che hanno rivoluzionato gli studi alla NASA.