Probabilmente Ridley Scott avrebbe risposto con entusiasmo alla domanda del trend di TikTok dello scorso anno su quante volte gli sia capitato di pensare all’Impero romano. Sicuramente anche Francis Ford Coppola, vista la metafora tutt’altro che celata di Megalopolis. Megalopolis e Il gladiatore II, entrambi spettacolari, entrambi circensi, entrambi imbevuti, ognuno a suo modo, di cinema. Ma se la Roma di Coppola è intrigo da basso impero volto alla speranza di una palingenesi per un altro ordine possibile, la visione di Scott è molle e corrotta, lasciva e infetta. Il potere, per Scott, merita sempre una violenta scossa, perché frutto di decadenza e corruzione, di inghippi e crimini, di ambizioni sfrenate e di manipolazioni spietate.
Il Commodo di Joaquin Phoenix (e la sua viscida interpretazione) è sostituito dai gemelli Geta e Caracalla, un duo di psicotici pallidi, con gli occhi segnati dal vizio e da un trucco che ricorda lontanamente quello di Daryl Hannah in Blade Runner, il cui difetto è di essere piuttosto puerili e insulsi, più che effettivamente pericolosi. Più Beavis & Butthead che Joker e Harley Quinn. La dose di perfidia, con un occhio che guarda in tralice anche all’attualità americana, è tutta sulle spalle di Denzel Washington, machiavellico magnate padrone di gladiatori, freddo orditore di trame per ottenere il potere, unico degno sostituto di un personaggio precedente (in questo caso Oliver Reed). Perché di fatto, Il gladiatore II ha più il sapore del remake realizzato un quarto di secolo dopo che del sequel. Al massimo occhieggia all’inarrivabile Spartacus, del quale cita esplicitamente almeno un paio di momenti.
Paul Mescal, Lucio, è il figlio di Massimo Decimo Meridio e di Lucilla, figlia di Marco Aurelio. S’è pompato un po’ di muscoli per essere credibile dopo la fragilità mostrata in Normal People, Aftersun ed Estranei, dispone della rabbia pronta ad abbattersi su Roma per avergli ucciso la donna che ama e la serenità del luogo in cui viveva (la Numidia) dopo essere stato messo in fuga anni prima dalla madre per salvarlo, ma non possiede il carisma disperato e melodrammatico di Russell Crowe, anche perché la sceneggiatura (di David Scarpa) è più attenta a inventare sequenze strabilianti che momenti di sofferta intimità.
E infatti il film trova la sua ragione d’essere nei suoi momenti più estremi, alcuni ben oltre il limite dell’assurdo, come il gladiatore che combatte in groppa a un rinoceronte, più simile a un videogame che alla scena di un film storico, il caotico combattimento contro babbuini dal muso di cane assetati di sangue che paiono provenire direttamente dallo spazio profondo o – addirittura – la battaglia navale messa in scena in un Colosseo totalmente allagato e riempito di squali. Scene volutamente eccessive, dichiaratamente kitsch, e comunque dall’ampia resa spettacolare, anche otto cineprese a riprendere in contemporanea da più angolazioni come se fosse il luogo di una performance e non semplicemente un set, per un discorso disposto a ricorrere a qualunque mezzo, anche cialtronesco, per impressionare.
Scott esibisce continuamente il suo spettacolo, un grande e incessante show magniloquente e sfarzoso, totalmente old school, quasi si trattasse di un ritorno concettuale e produttivo al periodo precedente a Cleopatra. Il Colosseo ricostruito quasi del tutto integralmente a Malta, le cinquemila comparse sugli spalti, ma anche il rinoceronte meccanico al posto di un’immagine generata al computer rappresentano il segno di una specifica volontà di materialità spettacolare, di realtà ricreata nella sua concretezza di recita. La finzione che oltrepassa i vantaggi economici della virtualità e tenta un’ultima eroica, forse ingenua, resistenza contro la simulazione, l’esaltazione del cinema come dispositivo, inteso nella sua essenza plastica condensata in narrazione. Che poi questa soddisfazione degli occhi si faccia beffe della verosimiglianza storica proprio per amore dello splendore della messa in scena, in Scott è pratica ben nota, basterebbe ricordare il bombardamento delle piramidi in Napoleon, solo l’anno scorso. Ovviamente, fermarsi a notare di chi sia la responsabilità della morte di uno dei due imperatori gemelli, oppure sindacare sulla nomina a senatore della scimmietta amata da Caracalla (che probabilmente allude al più raccomandato Incitatus, il cavallo di Caligola) è esercizio sterile all’interno della finzione accennata in precedenza, ma vedere un romano intento a leggere un quotidiano all’interno di una sala per le libagioni o il piccolo Lucio che attende tra due pali improvvisati la palla scagliata con i piedi dai suoi coetanei durante una partita di calcio colloca decisamente il tanto ambito piano spettacolare tra un film dei Monty Python e Marrakesh Express. E così Il gladiatore II oscilla costantemente tra l’aspirazione della sua arte d’antan e il cattivo gusto di alcune scelte, situandosi in quel limbo di prodotto medio che si perde nella lunga lista dei sequel (o remake) inutili.
Anni dopo aver assistito alla tragica morte del venerato eroe Massimo per mano del suo perfido zio, Lucio si trova costretto a combattere nel Colosseo mentre due tirannici imperatori governano Roma. Con il cuore ardente di rabbia e il destino dell'Impero appeso a un filo, Lucio deve affrontare pericoli e nemici, riscoprendo nel suo passato la forza e l'onore necessari per riportare la gloria di Roma al suo popolo.