Roma, 1964. Omosessuale. Non esisteva nemmeno la parola. E se non esiste la parola non è definito “il problema” che la legge dovrebbe coprire: o meglio, “il problema” c’è, ma bisogna dargli un altro contorno, perché la legge possa afferrarlo e neutralizzarlo. Plagio. Aldo Braibanti avrebbe, secondo l’accusa del processo istruito a suo carico quell’anno, soggiogato psicologicamente due giovani, che erano però maggiorenni e consenzienti, fatto per cui non si poteva giocare la carta della corruzione di minore. Né esistevano gli estremi dell’atto osceno in luogo pubblico, che nel 1949 avevano procurato a Pasolini una condanna e l’espulsione dal PCI. Uno dei due ragazzi, Giovanni Sanfratello, che ne Il signore delle formiche di Gianni Amelio diventa Ettore Tagliaferri (Leonardo Maltese), a 23 anni aveva seguito Braibanti a Roma per sottrarsi a una famiglia pressante e bigotta e sviluppare la propria inclinazione alle arti. La stessa famiglia che lo fa prelevare una mattina da quattro energumeni, e lo fa sottoporre a una terapia riparativa a base di elettroshock e iniezioni di insulina dalla quale non si riprenderà sostanzialmente più. L’alternativa era rivolgersi a Padre Pio, che aveva “curato” altri figli dal comunismo, o a un esorcista, come suggerisce qualcun altro (e come tanti nei secoli hanno fatto).
Il nuovo film di Gianni Amelio segue le vicende dell’accusa e del processo contro l’intellettuale emiliano (Luigi Lo Cascio), che era anche mirmecologo, ovvero studioso di formiche, occupazione da cui gli deriva la fama presso i suoi contemporanei e il titolo. E lo fa attraverso la mediazione dello sguardo partecipe, solidale, di un giornalista de «l’Unità», Ennio Scribani (Elio Germano) – purtroppo fittizio, anche perché capace di esprimere una modernità di pensiero sorprendente –, i cui interventi dal tribunale vengono emendati e corretti secondo la linea del “grande Partito operaio”, a ricordare come le posizioni del PCI sull’omosessualità fossero molto lasche quando non esplicitamente repressive. «Hanno arrestato un compagno» dice Ennio, che parla russo, a una delegata del PCUS in visita a Roma, e lei «Povero! dobbiamo aiutarlo, di cosa è accusato?», «Di amare un ragazzo»: la reazione, non verbale, della compagna sovietica è quella di una persona morsa da un ramarro. Se vogliamo fare un esercizio doloroso, ma significativo per capire la distanza vertiginosa tra uno stato autenticamente laico e il nostro “paese marcio”, quello degli anni ’60 ma anche oltre, dovremmo forse andare a vedere la biografia di Michel Foucault, quasi coetaneo di Braibanti (e che tra l’altro era figlio di un medico come lui) e notare come in molti punti le loro vicende sembrino i due lati di una sliding door che marca una distanza culturale abissale.
Non è solo lo spaccato storico dell’Italia degli anni ‘60 a interessare Amelio, evidentemente, ma anche l’intreccio tra la macrostoria e i drammi personali, il melodramma, nella stessa accezione di una sua nota interpretazione di Senso di Visconti; per accentuare gli elementi in questa direzione reinventa in sceneggiatura alcune delle situazioni di cui dalla cronaca si sa molto, anche se non tutto. Anzi, verrebbe da dire che Amelio sembra appropriarsi della storia per forzarla, riarredarla con degli elementi che gli sono congeniali, e pare proprio che questa volta l’intento sia di fare i conti con la propria storia personale. Lo fa come il suo protagonista prepara un terrario con le formiche per osservare come si comportano, secondo meccanismi predicibili e scarti inattesi, come quando una di loro perde le ali, e avviene “la fondazione di un nuovo impero”.
La questione non mai è solo cosa raccontare, del “caso Braibanti”, noto ma non notissimo, eppure evidente, ai nostri occhi di spettatori contemporanei, nella sua completa ingiustizia; la questione è anche in che modo parlarne, come per certi versi rimprovera Braibanti stesso all’allieva del laboratorio teatrale nel Torrione Farnese di Castell’Arquato. E già questa è una rielaborazione, tra l’altro, perché l’attività al Torrione era durata una manciata di anni dopo la Guerra, ma era già esaurita quando avvengono i fatti che portano al processo.
E ancora, se nella realtà fu Ippolito Sanfratello (il padre) a ordire il recupero del giovane Giovanni e la denuncia a carico di Braibanti, Ettore Tagliaferri, nel film, viene recuperato da una madre chioccia durissima (la cantante lirica Anna Caterina Antonacci) intrisa di lacca e cattolicesimo preconciliare, e dal fratello, che manifesta palesi problemi di gelosia: il padre, nella famiglia della finzione, è poco più che un soprammobile.
Ma, di tutte le interpolazioni della storia, il finale è forse quella che rende più evidente l’urgenza autobiografica di Amelio: rievoca, in campo lungo, un’altra stagione della propria vita, la partita di pallone tra la troupe di Novecento e quella di Salò, che si vedeva nel suo Bertolucci secondo il cinema (1976), mentre su un palco due figuranti inscenano in sync l’Aida che suona da un giradischi e nel prato Ettore dipinge su carta un pezzo di scenografia un po’ grossolana (un addio agli amori cinematografici di gioventù); arriva Braibanti ed è evidente che il tono sarà quello del migliore mélo cinematografico, quello di un incontro mai avvenuto, tra persone e corpi che rimangono distanti, che nella distanza lacerante trasmettono la certezza di essersi amati, o perlomeno desiderati. E lo strappo è ancora maggiore, a questo punto, se ci si ricorda che nel loro primo dialogo lo sguardo di Aldo (complice anche l’interpretazione fredda, non empatica che ne dà Lo Cascio) sembra evitare di incrociare quello di Ettore, che invece lo investe di tutta la propria entusiasta ammirazione.
Il Braibanti di Amelio è un modo per fare i conti con la propria storia, dunque, con la maschera, con la repressione subita, e non a caso una delle figure più patetiche è quella dell’avvocatino calabrese come lui, di Catanzaro, comunista, che esprime ad alta voce posizioni omofobe tanto più rivoltanti poiché non così distanti dal pensiero strisciante nostro contemporaneo, delle parole soffocate di chi non osa esprimere la propria ignoranza. Il caso Braibanti di Amelio è un caso che lo riguarda, ma che, soprattutto ci riguarda, a maggior ragione con le svolte predicibili che la storia potrebbe avere in serbo per il nostro paese: e lì ci ricorderemo della necessità che le parole esistano, con tutto quello che ne consegue.
* foto di Claudio Iannone
Alla fine degli anni Sessanta si celebrò a Roma un processo che fece scalpore. Il drammaturgo e poeta Aldo Braibanti fu condannano a nove anni di reclusione con l’accusa di plagio, cioè di aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico da poco maggiorenne. Il ragazzo, per volere della famiglia, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock, perché ‘guarisse’ da quell’influsso ‘diabolico’. Alcuni anni dopo, il reato di plagio venne cancellato dal codice penale: un reato che in realtà fino ad allora era servito per mettere sotto accusa i ‘diversi’ di ogni genere, i fuorilegge della norma. Prendendo spunto da fatti realmente accaduti, il film racconta una storia a più voci, in cui, accanto all’imputato, prendono corpo i familiari e gli amici, gli accusatori e i sostenitori, e un’opinione pubblica per lo più distratta o indifferente. Solo un giornalista s’impegna a ricostruire la verità, affrontando sospetti e censure.