Jean-Marc Vallée

Il cavaliere scheletrico (canonizzato)

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Texas, 1985: gli anni caldi dell’America reaganiana.

Ron Woodroof (Matthew McConaughey, magrissimo, in matematica performance da Oscar) è un elettricista di Dallas, tutto rodeo e testosterone, che annega il quotidiano in dosi massicce di alcol e sesso. Omofobo, violento, macho, irresponsabile. Almeno fino al giorno in cui, durante un controllo medico, scopre di avere l’AIDS, la peste di quegli anni ruggenti, capace di sconvolgere la percezione della sessualità nell’America edonista degli yuppies.

Ron non può credere che proprio quello sia capitato a lui: l’AIDS, la malattia dei gay, la sofferenza destinata a peccatori senza redenzione. Ma la sua testardaggine e il suo istinto di sopravvivenza si rifiutano di piegarsi alla prospettiva di una morte rapida. Diventa esperto in farmaci alternativi – illegali per le regole della Food and Drug Administration, serva degli interessi delle multinazionali – e, con l’aiuto del transessuale Rayon (Jared Leto, anche lui dimagrito, ma troppo vezzoso), trova il modo di importarli e diffonderli allungando vite e addolcendo dolori.

Il percorso del protagonista di Dallas Buyers Club – storia vera che sembra scritta a beneficio del cinema – è quello canonico di caduta e rinascita: l’arco narrativo vede Ron discendere nella disperazione più cupa per poi risalire a nuova vita (con più di un aroma di redenzione cristologica) e diventare un eroe di quella comunità omosessuale da sempre disprezzata. Un cavaliere scheletrico che combatte contro gli interessi delle industrie farmaceutiche e di parecchi medici consenzienti, privi di scrupoli e umanità.

Tutto vero, tutto bello, tutto giusto. Ma il problema del film di Jean-Marc Vallée è proprio nella sua contundente prevedibilità retorica. Non è tanto la struttura convenzionale a lasciare interdetti – siamo in un racconto ostentatamente canonizzato, con regole e tempistiche prestampate – quanto l’assoluta semplificazione funzionale di ogni aspetto del film. Sembra di assistere a una sfilata di caratteri, ognuno con il suo cartellino esplicativo: il manesco che scopre un cuore d’oro, il trans sarcastico e comprensivo, la dottoressa dolce e dolente, i vampiri del grande capitale farmaceutico e gli squaletti avidi del FDA.

Tutto è esposto come nella vetrina di un negozio, tutto è consequenziale, tutto riduce le emozioni a un riflesso condizionato per cui si ride e si piange a comando, seguendo un percorso tracciato da un goniometro. Si seguono delle istruzioni, non si esce mai da un seminato rassicurante e didascalico che tende a produrre un’emotività da laboratorio. Dallas Buyers Club è l’epitome del concetto di “nobile contenuto”: impeccabile cinema medio che rinuncia a sorprendere e a interrogare in nome di una placida normalizzazione dei sentimenti e delle idee.

Dallas Buyers Club
Usa, 2013, 117'
Titolo originale:
id.
Regia:
Jean-Marc Vallée
Sceneggiatura:
Craig Borten, Melisa Wallack
Fotografia:
Yves Bélanger
Montaggio:
Martin Pensa, Jean-Marc Vallée
Cast:
Matthew McConaughey, Jennifer Garner, Jared Leto, Denis O'Hare, Steve Zahn, Michael O'Neill, Dallas Roberts
Produzione:
Voltage Pictures, Truth Entertainment
Distribuzione:
Good Films

La storia vera di Ron Woodroof, un elettricista/cowboy ribelle del Texas al quale, nel 1986, viene diagnosticata l’AIDS, con una prognosi di pochi giorni di vita. Frustrato dalla mancanza di opzioni mediche disponibili e tutt’altro che rassegnato a questa sorta di condanna a morte, Ron trova un’àncora di salvezza nei farmaci alternativi e in un mix di vitamine di sua invenzione. Entra così in contatto con altri ammalati e familiarizza con loro, superando l’iniziale omofobia e ritrovandosi al centro di un cospicuo business di contrabbando. Inizia così una tesissima partita a scacchi con la legge che vieta i farmaci da lui usati e con la polizia.

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