«Sai qual è la cosa più spaventosa? Non sapere qual è il tuo posto in questo mondo. Non sapere perché sei qui. È una sensazione terribile. […] Ora che sappiamo chi sei tu, so chi sono io. Non sono un errore. Tutto ha un senso. Nei fumetti sai come si fa a capire chi è il cattivo più temibile? È l’esatto opposto dell’eroe». (Elijah Price, l'Uomo di vetro, Unbreakable - Il predestinato di M. Night Shyamalan)
Gli spunti per iniziare qualsiasi discorso su Joker di Todd Phillips sono molteplici. Soprattutto in un periodo di sovraesposizione del mondo dei supereroi, per quello che è senza dubbio il villain più celebre, iconico e meglio rappresentato su grande schermo e sulla moltitudine di albi a fumetti a lui dedicati, su tutti The Killing Joke di Alan Moore e Brian Bolland. Eppure le parole tratte dal monologo con cui l’uomo di vetro rivela la propria natura in Unbreakable portano dritti al punto: il cattivo è l’esatto opposto dell’eroe.
Una considerazione semplice e forse banale su cui Phillips costruisce la propria origin story. La struttura di Joker, se ridotta all’osso, è quella della nascita di un supereroe: c’è la scoperta del proprio potenziale, la voglia di cambiare le cose, un nemico da sconfiggere e l’affermazione popolare sotto forma di simbolo. Il tutto rovesciato di significato, per formare un perfetto contraltare di Batman, l’uomo pipistrello che da lì a qualche anno dedicherà la propria vita a vigilare su Gotham City.
Bruce Wayne in questo film è solo un bambino di dieci anni e appare in due momenti brevissimi; ciononostante Batman è onnipresente. Lo è in ogni avvenimento della vita di Arthur Fleck e in ogni tassello che lo porta a diventare Joker perché, definendo sé stesso, il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix definisce anche quello che sarà il proprio opposto. In questo senso, guardando il Joker di Phillips si percepisce la scrittura a ritroso tipica del prequel, disseminata in maniera non sempre naturale di momenti chiave ed elementi iconici che saranno poi gli ingranaggi fondamentali per l’universo di Batman.
Nonostante questo, il film ha il merito di funzionare anche autonomamente e di costruire attraverso il proprio protagonista un discorso personale. Ricalcando a grandi linee lo schema di Re per una notte di Martin Scorsese, Phillips riflette sull’idea di ironia come passepartout per essere accettati nella società. Le risate, la parodia e la presa in giro rappresentano il campo di battaglia su cui confrontarsi continuamente con il prossimo, delimitando il confine entro il quale essere coinvolti o diventare degli emarginati.
La solitudine assoluta a cui è relegato Arthur Fleck nasce proprio dalla sua mancata appartenenza a un’ironia condivisa, dall’esplodere in continue risate a squarciagola con la morte sul volto, dalle battute a cui corrispondono solo controcampi di un pubblico che non si diverte. Ed è da quest’emarginazione che nascono la frustrazione e il bisogno viscerale di rimodellare il mondo secondo il proprio modo di vedere, eliminando idoli e nemici per liberarsi da ogni schema imposto.
Una rivoluzione a tratti forse anche inconsapevole che mira a capovolgere il mondo, a trasformarlo nel suo esatto opposto, in attesa che un eroe arrivi per riportare le cose al loro punto di partenza.
Clown di giorno, il fragile e psicologicamente instabile Arthur Fleck aspira a essere un comico di cabaret. Purtroppo per lui è lo zimbello di tutti e quando prova a cimentarsi con la comicità non è in grado di suscitare la benché minima risata. Prigioniero di un’esistenza ciclica, tra apatia e crudeltà, Arthur entra in una dimensione sempre più sfalsata, convinto di diventare famoso e di essere ospitato in tv, nel programma del celebre presentatore Murray Franklin.