«Non guardatemi in questo stato» dice la madre (Penélope Cruz) ai suoi tre figli. Non è un'intimazione, non è un comando: è piuttosto una preghiera. Lei, la madre, è appena stata menata dal marito (fuori campo). Le ragioni non contano. Conta la supplica: togliete il vostro sguardo da me, adesso. La madre chiede di non essere guardata. Lei, che per i figli è l'immagine (di bellezza) prima e primaria, l'immagine suprema.
In effetti L'immensità è un film dove a fare la realtà e l'identità è lo sguardo. Strano, per un dramma così profondamente creato a partire dal pop. Tuttavia il pop di L'immensità, la cui vicenda è ambientata negli anni Settanta, è quello di Canzonissima. È dunque immagine, moda, rivoluzione, per quanto in bianco e nero. È la canzone che passa dal teleschermo domestico. È un rituale collettivo. È, più di tutto, un altro pianeta. Fantascienza.
Ascoltare il pop, dunque: ma principalmente vederlo. Vedere gli studi enormi, l'orchestra, i ballerini. Vedere il domani già in atto. Vedere un'altra musica. E il presente, nel frattempo, è fermo a un patriarcato e a un tradizionalismo cattolico che non danno scampo. Non è un caso se L'immensità comincia con Rumore di Raffaella Carrà, quasi nella sua interezza. Un brano per anni scambiato per conformistico e reazionario e invece inno alla disomogeneità femminile. Eppure Rumore – è noto – non è (stata) soltanto una canzone: è (stato) anche ballo, caschetto, mossa, futuro, sesso, sessi. Ribellione. Un atto da cantare, certamente, ma altresì da vedere, immaginare, proiettare. Al pari del celebre scioglilingua futurista di Adriano Celentano, Prisencolinensinainciusol, che non vuol dire niente e vuol dire tutto, e che dà per accettabile e giustificata ogni spiegazione possibile.
Il pop di L'Immensità è gesto, prima di ritornello; è liturgia, come nella straordinaria scena della Messa che si scolora in celentaneide, transustanziazione tra spettacoli, funzione religiosa e arte basso-mimetica, cioè la stessa cosa. Un pop, dunque, che in quell'Italia così minuscola e così timorata di Dio attraversava il piccolo schermo per finire nei tinelli o nelle camere da letto. Su una vestizione si fonda perciò il film di Emanuele Crialese: la storia di Adriana che vorrebbe essere Andrea, e che per credere in un suo sé incomprensibile indossa le immagini di Raffaella Carrà e Adriano Celentano e Patty Pravo tanto per idealizzare l'immagine regina, quella della madre, quanto per cercare di capire la sua, di immagine. Per capirsi. Un processo ancora soltanto psicologico: per il corpo, nascosto sempre da una maglietta, ci sarà tempo. Un processo, per giunta, in totale solitudine. Per Adriana, anzi, per Adri, come tutti la chiamano, è il solo modo di modulazione della realtà. Il cinema è fuori scala: infatti la ragazzina si annoia in sala con Il dottor Zivago (mentre la madre apprezza e piange). Solo la televisione è il giusto mezzo. Prestate attenzione: non c'è tv e non c'è pop durante i pranzi e le cene. Non è assurdo? Non è inconcepibile, stando a tutto il cinema italiano che conosciamo? Stando alle nostre vite? Ma è appunto lì, attorno alla tavola, che si esercita il comando del padre padrone. Lì, e sul materasso. Quindi ogni sguardo di fuga e di immaginazione è inaccettabile. Direi illegittimo.
Per questo motivo L'immensità è anche un film inesorabilmente tragico: perché le cose non cambiano. Nessuna condanna, nessuna espiazione, nessuna evasione: Adriana non è Andrea, l'amica di gioco e di sentimenti residente nelle baracche adiacenti sparisce (la zona viene “bonificata”), la madre torna da un ricovero per esaurimento per ritrovare al loro posto il marito puttaniere e la suocera severa, l'appartamento è sempre lo stesso (solo il divano è diverso: il precedente è andato a fuoco), l'aria anche.
L'immensità, che inizia allora con Rumore, termina naturalmente con L'immensità di Johnny Dorelli, sui titoli di coda. Anzi, termina un po’ prima, con Adri nei “panni” di Dorelli, e con la sua voce, che canta in playback il tema di Love Story. In bianco e nero, chiaramente. Tutto torna. Solo un sogno, non di immedesimazione, semplicemente di sguardo. Uno dei tanti, in questo bel film, fragile e debole eppure molto intelligente, di Emanuele Crialese.
Roma, anni 70: un mondo sospeso tra quartieri in costruzione e varietà ancora in bianco e nero, conquiste sociali e modelli di famiglia ormai superati. Clara e Felice si sono appena trasferiti in un nuovo appartamento. Il loro matrimonio è finito: non si amano più, ma non riescono a lasciarsi. A tenerli uniti, soltanto i figli su cui Clara riversa tutto il suo desiderio di libertà. Adriana, la più grande, ha appena compiuto 12 anni ed è la testimone attentissima degli stati d’animo di Clara e delle tensioni crescenti tra i genitori. Adriana rifiuta il suo nome, la sua identità, vuole convincere tutti di essere un maschio e questa sua ostinazione porta il già fragile equilibrio familiare ad un punto di rottura. Mentre i bambini aspettano un segno che li guidi, che sia una voce dall’alto o una canzone in tv, intorno e dentro di loro tutto cambia.