C’è questa immagine qui, da La folla di King Vidor:
Un uomo qualunque, che per tutta la vita ha pensato di diventare qualcuno, finalmente trova la serenità perdendosi nella massa. La cinepresa si alza, si allontana e lascia che l’uomo, con la moglie e la loro bambina, affoghi tra il pubblico di una sala cinematografica. È il 1928, gli anni ruggenti stanno per finire, la Depressione è a un passo.
Poi c’è questa immagine qui, da Wolf of Wall Street:
Un uomo diventato ricchissimo derubando migliaia di persone ricomincia da dove è partito, dando lezioni su come si convincono gli altri a comprare, su come ci si distingue dalla massa diventando ricchi. Siamo alla fine degli anni ’90, il decennio della fine della Storia, poco prima del settembre 2001, quando la Storia è ricominciata. Perché la Storia è sempre pronta a ricominciare, e la società americana a riprendere la sola corsa che per lei abbia senso, quella verso la ricchezza. Il movimento di macchina è lo stesso: il dolly si alza su una folla seduta e si mette in movimento. Solo non va indietro, ma avanti; e il protagonista non è nella folla, ma davanti a essa.
Perché in Vidor c’è questa immagine piuttosto famosa:
Mentre in Scorsese c’è questa:
Lo stacco è tutto qui. La cinefilia umanista di Scorsese non avrebbe senso se non fosse concepita come una ripresa e un superamento continui del cinema classico; se non fosse l’aggiornamento soprattutto visivo del percorso compiuto nella Storia dall’individualismo americano, la lotta del singolo contro la povertà – in nome dell’emancipazione, della rivalsa, della soddisfazione, della ricchezza – la sua vittoria e poi la sua caduta, l’incombere della tragedia e l’invasione della farsa. E l’individuo di Wolf of Wall Street dalla massa e dalla Storia non si fa travolgere: le cavalca, anzi, e se ne mete alla guida.
La Storia che cavalca, poi, ricorda da vicino quella che si viveva negli anni in cui è stata girata questa scena:
Che ovviamente ricorda questa:
Cioè L’appartamento di Billy Wilder, la fine degli anni ’50 e l’apogeo del capitalismo del dopoguerra, con una festa natalizia che racconta il decennio più di ogni altra rappresentazione. Anche allora, probabilmente, prima del ’63, si pensava che tutto fosse possibile, che la ricchezza non potesse che essere progressiva. E gli anni ’90 non sono stati che l’evoluzione di quel sentimento, la strada senza corsia dell’America più benestante mai esistita, riemersa dal crack dell’87 e avviata alla ricchezza infinita. Senza ostacoli, senza giudizi, senza controllo.
Scorsese riprende l’orgia di quel cammino, ne fa la sua unica regola, e non concede alle sue bestie nemmeno il privilegio della tragedia. I broker di Wall Street sono infatti l’evoluzione dei mafiosi di Casinò, che finivano la loro corsa al passaggio tra i ’70 e gli ’80, travolti dall’inevitabile avanzare delle truppe di casalinghe all’assalto. I gangster però erano una nicchia, spazzatura che si prendeva il benessere a morsi, mentre i lupi sono fottuti capitani Achab che insegnano alle masse a cacciare balene; terroristi telefonici che convincono migliaia di famiglie avide come loro ad aprire le loro tasche; bambini nella fabbrica del cioccolato pronti ad azzuffarsi il più possibile.
Perché alla fine di tutto c’è questa immagine:
che fa pensare a questa:
Ancora una volta, cioè, la sfida del singolo alla massa come forma di racconto. Ma quello che in Toro scatenato era lo sfogo disperato di un uomo solo, in Wolf of Wall Street è diventato un movimento collettivo, un richiamo animale verso la ricchezza che porta all’anima più vera di una nazione e una cultura.
La vera storia di Jordan Belfort dalle sue origini fino all'ascesa nel mondo di Wall Street e alla sua condanna a vent'anni di reclusione per il rifiuto di collaborare nell'indagine che portò a galla la corruzione dominante nel mondo finanziario americano negli anni Novanta.