Le mie ragazze di carta, l’ultimo lavoro di Luca Lucini, è un film sincero. Semplice, classico nello stile, scontato forse nel lieto fine ma vero, autentico, sentito; e questo, nel cinema di oggi, non è un pregio da poco. Vi si narra la storia di Tiberio, un ragazzo che inizia le scuole superiori nel 1978 a Treviso dopo esservisi trasferito dalla campagna, e della sua famiglia, papà Primo e mamma Anna, oltre che quella del cinema antistante alla nuova casa, che per non fallire deve diventare una sala a luci rosse, fatta chiudere molto velocemente dal perbenismo che aleggia sulla città (non a caso viene citato esplicitamente Signore & signori), ma aperta per un tempo sufficiente a far conoscere a Tiberio la pornostar Milly d’Italia, di cui si innamora (per la prima volta) perdutamente e con cui scopre i turbamenti della sessualità, affiancato da un amico più precoce.
Il film è quindi tre cose: un omaggio al cinema che non muore, nonostante la diffusione sempre più ampia della televisione nelle case degli italiani, come accade oggi con le piattaforme; un romanzo di formazione adolescenziale; un documento del clima e del costume dei tardi anni ’70 in Italia, anni in cui molti si sono inurbati per trovare lavoro in enti come, in questo caso, le Poste, in cui il paese cominciava a modernizzarsi (le moto, le automobili, la televisione a colori…), in cui la morale cominciava a cambiare (un personaggio come Primo poteva accettare un transessuale e in qualche modo innamorarsene, o comunque permettere che questi gli aprisse dei mondi, ma gli abitanti di una provincia bigotta e retriva non possono accettare a lungo la presenza in città di un cinema a luci rosse, salvo andarci in massa di nascosto). C’è un cenno alle parrocchie in cui i ragazzi andavano a conoscersi e anche a fare dello sport, in questo caso il rugby; e c’è, contrapposto a questi valori, quello del denaro come chiave che apre il mondo.
Soprattutto, si diceva, l’opera mostra il passaggio dall’infanzia all’adolescenza di Tiberio e dell’amico Giacomo, il figlio del gestore del cinema; un passaggio fatto di scuola, di gioco, di pulsioni, di innamoramenti per ragazze finte e per ragazze vere, di sogni, di idealizzazioni e di desideri. E di persone importanti, che arrivano e se ne vanno come fa Don Marcello, il prete allenatore; di scoperte sulla vita e sulla sua precarietà; di dovere e di piccole trasgressioni; di ironia e di leggerezza. Gli attori che interpretano i due ragazzi, Alvise Marascalchi e Christian Mancin, sono bravissimi, ma tutto il cast funziona; si ricordano Andrea Pennacchi e Maya Samsa nella parte dei genitori di Tiberio, Neri Marcorè nel ruolo del parroco, Cristiano Caccamo che interpreta il transessuale che si relaziona con Primo. Il cast, la musica (di Nicola Piovani), la regia. A indicare la nostalgia di un mondo, di un’Italia che non c’è più, ma a indicare anche una speranza per il futuro attraverso questi giovani, che sono poi i cinquanta/ sessantenni di oggi, che amano il cinema con la sua natura di finzione ma che sanno poi apprezzare le relazioni vere, tra ragazzi in carne e ossa, iniziate magari, comunque, dietro lo schermo di una sala di provincia.
Fine anni 70, nel trevigiano. La rapida espansione delle città investe anche la famiglia Bottacin, composta da Primo, Anna e Tiberio. Per loro, e in particolare per il giovane Tiberio, il cambiamento dalla vita contadina a un contesto urbano sarà piuttosto tumultuoso. Il racconto di un periodo storico di grandi trasformazioni sociali ed economiche, in cui anche le sale cinematografiche, luoghi tipici di fruizione comunitaria, dovettero ripiegare verso una programmazione a luci rosse per evitare il fallimento.