Alana e Gary, i due protagonisti di Licorice Pizza, lei venticinquenne senza un vero lavoro e soffocata da una famiglia invadente, lui quindicenne, attore ragazzino e con un innato spirito imprenditoriale, sono creature vive, conflittuali, agitate, in costante movimento eppure inchiodate al loro aspetto sempre identico – lei agile, nervosa a suo modo seducente, lui goffo e ingenuo ma già adulto. Possono esistere solo su uno schermo, in un mondo realistico ma immaginario (la Los Angeles del 1973, nell’immancabile San Fernando Valley di parecchi film di Anderson), non necessariamente una fantasia nostalgica o una proiezione ideale (come in C’era una volta… a Hollywood di Tarantino), ma più semplicemente un set trasformato in una possibilità, in una città del passato in cui vivere per 133 minuti.
Alana e Gary non hanno nemmeno bisogno di una trama per essere personaggi: basta il cinema. Come protagonisti di una commedia sentimentale moderna, non vivono una parabola d’amore o un coming of age, ma trovano la loro ragione d’apparire – più che d’essere – nelle singole sequenze di un film episodico e frammentato (senza trama, per l’appunto). Nel doppio piano sequenza iniziale, ad esempio, o nelle scene costruite su movimenti speculari: lui che viene fermato dalla polizia e lei che corre per raggiungerlo; lei che cade da una moto e lui che parte di corsa a soccorrerla; lei che fa la seducente al telefono sotto lo sguardo ingelosito di lui; lei che osserva inviperita lui fare le moine con una sconosciuta…
Alana e Gary non sono nemmeno fidanzati: sono due personaggi che si incontrano e a loro modo si incastrano. Entrambi sono creature della fantasia di Paul Thomas Anderson, l’ennesima coppia fuori asse del suo cinema, dopo Ubriaco d’amore, The Master e Il filo nascosto (e volendo anche altri film, ma poi si rischia di essere troppo autorialisti). E lì sullo schermo – in una Los Angeles anni ’70 fatta come al solito di citazioni, locandine e celebrità camuffate (William Holden, Lucille Ball, Sam Peckinpah), ma soprattutto di un’immaginazione in cui strade, penombre, umori e atmosfere esistono solo nel film e per il film (come nella loro prima, splendida camminata notturna, sulle note dell'unica composizione di Jonny Greenwood) – Alana e Gary diventano creature del cinema.
Del cinema inteso come movimento, luce, colore; di una regia concepita come sguardo aperto verso i personaggi, come attraversamento di uno spazio e di un tempo precisi, con la macchina da presa che si muove in un mondo che ricorda tanto Altman, con gli zoom e i movimenti lenti ad allargare il campo. In questo senso, Licorice Pizza è il film più semplice e in apparenza disimpegnato di Anderson: non tanto perché il più vicino alla sua vita (lui che è figlio di un uomo di spettacolo ed è cresciuto nel sottobosco di Hollywood), ma perché è quello in cui gli elementi del cinema tout court, i movimenti di macchina, il montaggio, la musica, le figure in movimento, sono presenti in maniera gratuita e naturale. Alla maniera del cinema classico, verrebbe da dire, se non fosse che già lo stesso regista ha citato Billy Wilder come principale modello del suo film.
Licorice Pizza non serve a niente, non dice niente, se non ricordare perché si fanno film e perché si guarda il cinema: per credere nel mondo, per entrare in mondi credibili, per conoscere l’idea di possibilità.
Non solo: il nono film di Anderson è anche il suo più scritto, quello in cui le singole scene emergono come la risultante di un minuzioso lavoro artigianale di scrittura, messinscena e creazione collettiva. Il film è fatto di scene singole che rimano le une con le altre o si contrastano a vicenda; di momenti di corsa a cui seguono altri in cui i personaggi sono bloccati (la strepitosa sequenza della discesa del camion senza benzina); di dialoghi silenziosi al telefono e di altri dialoghi in cui le frasi sono ripetute due volte; di gente che dice di conoscere sei lingue e di altra gente che non sa pronunciare giusto il cognome di Barbra Streisand; di materassi ad acqua che l’acqua non la possono e non la devono perdere, ma sono promossi da uno slogan che recita «Soggy Bottom», cioè sedere bagnato…
Tutto è scritto, in Licorice Pizza. Tutto arriva sullo schermo mediato dall’onnipresenza di Anderson (ragione per cui il regista non piace ai rosselliniani di rigida osservanza), ma ci arriva – così gratuito e artificiale – per essere liberato, per trovare nell’incontro/scontro dello schermo con lo spettatore il solo e unico incontro che conti. Nel film, come Alana e Gary, tutto si scontra e si ritrova: i corpi sbattono (davanti a una sala, nel finale), si sfiorano mentre sono silhouette distese su un materasso, si abbracciano in penombra (il saluto fra Alana e il fidanzato segreto del candidato sindaco – il momento più bello del film, unico e isolato come tutto il resto); e i sogni nascono dal nulla ma si bloccano di fronte al principio di realtà (la crisi petrolifera del ’73, che ferma le macchine e la produzione di vinile, proprio mentre Bowie sta cantando «It’s on America’s tortured brow / That Mickey Mouse has grown up a cow / Now the workers have struck for fame» e Gary urla «it's the end of the world»)...
Licorice Pizza è un film che si specchia in sé stesso, narrativamente e visivamente, e che rimanda allo spettatore un’immagine da ammirare e a cui, possibilmente, affezionarsi (non c'è da seguire la storia, c'è da abbandonarsi a essa). La quasi matura Alana è il riflesso del troppo maturo Gary: lui vede sé stesso in lei, anche se lei ha dieci anni in più e in nessun posto al mondo, se non in un film, se non a Los Angeles nel 1973, potrebbe ricambiare lo sguardo.
Los Angeles, 1973. Gary e Alana vivono diverse avventure, correndo da una parte all'altra della città, crescendo giorno dopo giorno e innamorandosi. Il racconto di una singolare storia d’amore,