Luca Bellino, Silvia Luzi

Luce

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Giunta a un punto di non ritorno, perfettamente simmetrico, con due documentari, La minaccia (2008) e Dell’arte della guerra (2012), e al traguardo del secondo film di finzione, dopo Il cratere (2017), l’opera in divenire di Luca Bellino e Silvia Luzi, sviluppandosi a intervalli temporali regolari, si presta ormai a una prima lettura globale. L’equivoco della contrapposizione in Luce specialmente tra fiction e non-fiction viene esplicitato e perciò superato nella struttura interna, a sua volta simmetrica, che contrappone solo all’apparenza, ma in realtà combina attraverso una precisa associazione di idee e coincidenze significative, il blocco descrittivo della fabbrica di pelli e quello narrativo delle lunghe telefonate tra la protagonista e suo padre.

È dunque indispensabile attrezzarsi in questo percorso che è anche sintomatico di un lavoro di coppia, quindi orchestrato su una autorialità duale che richiama la “luce” nel nome di uno, “Luca”, e nel cognome dell’altra, “Luzi”; ovvero di strumenti teorici che accompagnano costantemente la messa a punto di un’indagine a tutto campo di ordine sociologico e psicanalitico, linguistico e culturale. Motivo in più perché alla linea netta che connota la struttura generale, in cui la prigione paterna invisibile si interfaccia con la fabbrica che ingabbia la ragazza, venga ad aggiungersi anche una chiave di lettura di fondo che investe la superficie delle immagini sonore in perpetuo e irriducibile movimento: l’impianto che se ne ricava dall’insieme composito chiama così in causa il binomio per l’appunto audio-visivo; e comporta un conguaglio continuo tra l’acusma vocale e telefonico del padre assente e la rete insistita di immagini puntuali del gruppo femminile, dominato dal fattore maschile sul luogo di lavoro, dove dal cottimo è possibile brevemente sottrarsi chiedendo di andare urgentemente in bagno.

In tutti e due i casi, concomitanti, persiste il controllo digitale, marcatamente dei maschi, al centro anche di una riflessione ad ampio spettro sui dispositivi e la “bolla digitale”, come Francesco Casetti definisce in Schermare le paure l’auto-isolamento senza pareti fisiche degli utenti contemporanei. Tanto che al parlare telefonicamente del genitore si oppone, pur nelle conversazioni a tappeto, un relativo ma fondamentale silenzio della protagonista verso gli altri e le altre. L’atto del vedere, dunque, e del sentire inseparabile, anche sul piano interiore, contrapposto alla piena visibilità documentata di un ambiente di lavoro preciso, viaggiano su binari in cui a prevalere è di necessità l’elemento alternativo della “voce umana”, con esplicito richiamo al monologo teatrale di Jean Cocteau. E che l’interprete principale, Marianna Fontana, regge con estrema disinvoltura, quasi non recitando ma vivendo in prima persona e presa diretta la vita del personaggio, contornata da altri personaggi in panni di palese autenticità performativa, davanti alla macchina da presa e probabilmente nella vita o sul posto di lavoro.

Questa impronta concettuale ineludibile ipoteca ogni aspetto e dato uditivo che aggancia al figurativo la parabola sperimentale nei due autori; tanto da portare allo scoperto da subito il peso specifico dei dispositivi di ripresa, ovunque e comunque, paralleli ai “cellulari” intesi nella doppia accezione di mezzi di strumenti di comunicazione e incomunicabilità, dialogo e chiusura ermetica (come il veicolo “cellulare” che nel gergo corrente conduce i detenuti da un luogo di custodia all’altro). Il dominio delle immagini, tramite i droni altolocati, rende questa procedura dello sguardo pervasiva come solo a una mosca, di proposito evocata, è permesso fare, e costituisce la cifra dell’oggi: a queste condizioni preliminari, di solito omologate e perciò tanto più restrittive espressivamente nell’ipotecare lo stile stesso del cinema corrente, si gioca la partita di Luce, mutuata dalla componente “panottica” già analizzata come determinante sul piano individuale e collettivo, senza soluzione di continuità, da Michel Foucault. Cosicché il drone, che Gianni Amelio ha giustamente in varie circostanze pubbliche e didattiche definito una sorta di “ladrone”, in Luce si appropria di vite, tempi e spazi; ed è non a caso al centro di un racconto che irregimenta e gerarchizza in verticale, in tutti i sensi, lo scorrere orizzontale dell’esistenza della protagonista: sola tra altre comprimarie ugualmente solitarie, soprattutto se costrette a stare assieme alla catena di montaggio, parlando, mangiando o all’occorrenza ridendo, va da sé senza un motivo preciso.

La giovane operaia è perciò la chiave di volta di una riflessione in “luce”, dove la chiarezza del discorso si fa psicanalitica nell’agganciare l’attualità dell’Edipo a quella degli strumenti del riuscire a malapena a comunicare, a dispetto delle tradizionali tipologie “fredde” e “calde” di Marshal McLuhan. In questa cornice fitta di richiami trasversali, il padre è la chiave di volta di un sistema ancora fisiologicamente patriarcale in cui la giovane donna, sfuggita a una prigione, per nostalgia si consegna ad un’altra, privilegiando e appena mistificando all’apparecchio vocale compagnie di necessità senili. Il bisogno ancora di sentirsi protetta, di invocare un dominio maschile/paterno di pieno riferimento la rende quasi un essere incapace di convivere con gli altri. Molti film italiani di questi anni hanno messo in conto questo rapporto con la figura del padre, minacciosa o auspicata, fuggita o cercata insistentemente, da Chiara a Padrenostro, da Familia a Iddu – L’ultimo padrino. E Luce rincara la dose erogandone uno completamente al telefono, grazie a un drone, e in modalità di perenne “acusma”, citando Michel Chion.

Questo nuovo padre di Bellino e Luzi chiude il cerchio: le dipendenze e l’incapacità di tirarsi fuori da parte dell’interprete di Luce, la portano a sentirsi colta e inseguita come entità centrale, sì, ma di inquadrature/perimetri audiovisivi in cui tutto il resto appare, come alla diretta interessata, sfocato. L’edipica ossessione di figlia è conclamata: ella reclama senza posa un gancio paterno, non importa se recluso o che reclude con modalità paternali, docili e oppressive; e lo reclama in ogni personale manifestazione, corale o appartata, di luce o di buio, tra la gente o preferibilmente senza, nel mondo o nelle immagini digitali del mondo, silenziosa o in conversazione minima.

Il femminile incarnato da Fontana e pedinato dalla macchina da presa, comunque si chiami, stretto com’è nella morsa del paradigma nome/voce-del-padre affidato a Tommaso Ragno, non può sottrarsi a un’egida maschile diuturna e genealogica, generativa e genitoriale. Il fantasma paterno la possiede e lei a sua volta lo cerca e reitera con surrogati più o meno riconducibili all’atavica terza età; o accettando il giogo da operaia, come oggi è impossibile sottrarsi al dominio e all’intromissione dei dispostivi. Che poi siano digitali o psichici, i fantasmi di Luce si confermano di lunga durata, freudiani, lacaniani o mediali, non fa differenza, sostituendosi o intrecciandosi gli uni con gli altri. Il carcere/fabbrica della vita privata e familiare opera dentro una dimensione dove il “privato” è una forma di deprivazione relazionale. Il sentirsi, bene o male, senza via di scampo, la conduce ad un equilibrio purchessia, ma dentro questa coazione a ripetere del meccanismo edipico. Con la consolazione in extremis dell’ebbrezza etilica che compensa la primaria scena sentimentale del filmato domestico da cui è scaturita la soluzione del drone, unico mezzo di comunicazione per superare il muro del distacco doloroso e insostenibile.

Perciò, nel decorso esemplare di Luce, questa soluzione affettiva ed effettiva procede di pari passo con l’appuntamento e debito contratto a monte con le riprese dall’alto e con l’inconfessabile cerchio rimosso e ritrovato dell’amore paterno, pronto a cementificarsi con il miraggio di un’isola esclusiva solo per i due. Altro non può del resto prometterle questa misteriosa e (di)oscura entità di recluso penale, il quale si offre all’udito filiale e spettatoriale come pura “figura dell’assenza”; e che riallaccia la porzione di mondo campano carente di potere contrattuale e restituito sotto specie di documentario, quindi asservito lavorativamente all’idea di cinema avanzata, principalmente nella prospettiva di una finzione da demistificare, da Marc Vernet come sfida all’evidenza pedissequa delle migliori intenzioni dello storytelling seriale, avvincente e consolatorio.


 

Luce
Italia, 2024, 93'
Titolo originale:
id.
Regia:
Luca Bellino, Silvia Luzi
Sceneggiatura:
Luca Bellino, Silvia Luzi
Fotografia:
Caramella Jacopo
Montaggio:
Luca Bellino, Silvia Luzi
Musica:
Stefano Grosso, Alessandro Paolini
Cast:
Marianna Fontana, Tommaso Ragno
Produzione:
Stemal Entertainment
Distribuzione:
Barz And Hippo

Una giovane donna vive in un contesto che la vuole operaia e sottoposta. Lei però decide di cercare la propria voce.

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