Ti West

MaXXXine

film review top image

Dalle stalle alle stelle, letteralmente, MaXXXine è la degna conclusione della trilogia con protagonista Mia Goth, iniziata nel 2022 con X: A Sexy horror Story e proseguita qualche mese dopo con l’uscita di Pearl. Una trilogia cominciata in una fattoria del Texas occhieggiando al filone settantesco sullo stile di Tobe Hooper e Wes Craven, passata attraverso un flashback dalle tinte dense e pastose con il sapore del mélo anni Cinquanta e giunta infine a Hollywood, con il tentativo di arrembaggio da parte della protagonista, la Maxine una volta ninfetta del porno e ora, superati i 30 anni, aspirante star dell’horror.

I lavori di Ti West non sono solo thriller, ma giocano sempre con un certo grado di metadiscorsività che fornisce una chiave di lettura diversa dalla pura sostanza delle corpose immagini proposte, incuranti di lambire spesso i limiti del buon gusto. Sempre schizofrenicamente a cavallo tra pratiche da grossier e la raffinatezza di chi usa con evidente consapevolezza mezzo e riferimenti cinematografici, West in questa trilogia sulla volontà di affermazione ha sempre mostrato qualcosa per dire soprattutto qualcos’altro. MaXXXine è ovviamente legato concettualmente a X: se quest’ultimo sviluppava il suo discorso metaforico sull’identità scopofila tra porno e horror, MaXXXine la dà per assodata, la ribadisce (su uno dei cartelli dei manifestanti campeggia la scontata equazione horror = porn, a scanso di equivoci) e la sviluppa attraverso un passaggio di stato, il voyeurismo visto dalla prospettiva opposta, ossia come desiderio smodato di apparire per poi affermarsi. Il substrato allegorico di MaXXXine ruota intorno al concetto di divismo, declinato in tutti i suoi progressivi aspetti fin dall’esergo del film, in cui grazie a una frase di Bette Davis si premette l’esercizio della crudeltà come requisito fondamentale del successo.

Facendo la necessaria tara a tutti i lavori che piuttosto ipocritamente indicano Hollywood come il Male assoluto a cui vendere l’anima, West persegue comunque il suo disegno con una certa coerenza drammatica e simbolica, lavorando come al solito sulle dinamiche di genere e intrecciandole intorno alla facile ma inevitabile metafora del simulacro. Nella Hollywood screziata al neon di West, infatti, tutto è immagine e apparenza e rappresenta fedelmente la natura stessa di ciò che si produce. I confini tra realtà e illusione, quando esistono, sono totalmente sfumati, smarriti in un gioco di rifrazioni illusorie nelle quali alcuni vedono il successo, altri il peccato e la perdizione. Le facciate dei fabbricati nei backlot della produzione sono il corrispettivo inorganico della recitazione e, volendo abbondare, anche di qualunque presenza ruotante intorno a quell’universo circoscritto, dai sosia che popolano il Sunset boulevard al detective frustrato Bobby Cannavale, che indaga come se fosse impegnato in una performance.

La stessa Maxine è pura essenza cinematografica in nuce: compare in scena per partecipare al provino di The Puritan II come una sagoma scura che si staglia nella luce dell’ingresso dello studio (metafora dello schermo? Soglia di Sentieri selvaggi? Fate voi) e chiude il film osservando il calco del suo capo mozzato ammirando quanto sembri reale. In mezzo, celebra ancora una volta dopo X il suo ruolo di Final Girl mentre punta a raggiungere la sua collocazione nel mondo in cui “ci sono più stelle che in cielo”, come allude apertamente l’infinito e vertiginoso movimento aereo della cinepresa durante i titoli di coda, ancora più simbolicamente coerente perché palesemente fittizio, creato in postproduzione.

Pur tenendo conto della tara di cui prima, West suggerisce costantemente con la sua concezione spaziale che l’ascensione rappresenta un pericolo mortale. Una vertigine morale, oltre che materiale. Tutti gli omicidi del killer conosciuto come Night Stalker — realmente operante a Los Angeles tra l’84 e l’85 — avvengono ai danni di starlette speranzose invitate a feste esclusive sulle colline, su quella che non a caso è denominata Starlight drive. Perfino il redde rationem finale avviene, con un passaggio emblematico fin troppo elementare, sul declivio del monte Lee, sotto la monumentale Hollywood Sign. Che si macchia di sangue, tanto per renderne inconfutabile il senso.  

Se guarda all’industria con sospetto, West si fida però ciecamente della Storia del cinema, assegnandole una funzione salvifica. Quello che nella sua elementare costruzione della tensione diventa pericolo è in qualche modo ricomposto nei suoi equilibri dal profondo rispetto nutrito nei confronti dei suoi riferimenti cinematografici. Maxine si ritrova sfidata a duello in una main street western dal detective interpretato da Kevin Bacon e nella sua corsa disperata per sfuggirgli sfida il simulacro degli Studios (attraversa i set della Universal) e trova rifugio nella celebre casa di Norman Bates (e della madre) in Psycho, salendo per la ripida scalinata dell’abitazione, laddove il salire, nel film, è sinonimo di fine. Eppure, per West, il cinema salva. Non i meccanismi perversi della sua organizzazione produttiva, ma ciò che resistendo a essi resta per sempre nell’immaginario del pubblico.


 

MaXXXine
Stati Uniti, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, 2024, 103'
Titolo originale:
id.
Regia:
Ti West
Sceneggiatura:
Ti West
Fotografia:
Eliot Rockett
Montaggio:
Ti West
Musica:
Tyler Bates
Cast:
Charley Rowan McCain, Simon Prast, Mia Goth, Deborah Geffner, Daniel Lench, Elizabeth Debicki, Chloe Farnworth, Brad Swanick, Uli Latukefu, Susan Pingleton, Giancarlo Esposito
Produzione:
A24
Distribuzione:
Lucky Red, Universal Pictures

Hollywood, anni '80. Maxine Minx, star di film per adulti e aspirante attrice, riesce finalmente a trovare la sua grande occasione. Un misterioso assassino, però, sta dando la caccia alle stelle di Hollywood e questa scia di sangue rischia di rivelare il suo oscuro passato.

poster