Occhi, sguardi che si avvicinano, prima in bianco e nero e poi a colori, fino ad arrivare alla freccia che va dritta a colpire il centro del bersaglio rosso bianco e blu che fu il logo degli Archers, gloriosa compagnia di produzione indipendente fondata nel 1943 (sotto l’ombrello della potente Rank) da Michael Powell ed Emeric Pressburger, rispettivamente regista-produttore e sceneggiatore, che collaboravano già dal 1939, da quando Alexander Korda (producer-director ungherese che aveva fatto fortuna a Hollywood con sontuose ricostruzioni storiche e poi si era trasferito a Londra) aveva avuto l’idea di metterli insieme per realizzare un film bellico-noir di spionaggio ambientato durante la Prima guerra mondiale, La spia in nero, il cui soggetto era stato rivoltato come un calzino dall’ebreo ungherese Pressburger, appena arrivato in Inghilterra, fuggiasco dall’Europa continentale via via invasa dai nazisti. Parla in fretta ed esaurientemente Martin Scorsese, produttore esecutivo del documentario firmato da David Hinton, Made in England: i film di Powell e Pressburger, su Mubi dal 28 giugno.
Scorsese è infatti il narratore, seduto davanti alla cinepresa e intento a raccontare passo passo la sua “educazione sentimentale” al cinema di P&P. Un innamoramento infantile, quando da piccolo vedeva i loro film, purtroppo tutti in bianco e nero, sul piccolo schermo della tv americana, che continuava a trasmetterli: dal primo, Il ladro di Bagdad (co-regia di Ludwig Berger, Tim Whelan e Powell, che certamente diresse le scene del Genio della bottiglia, dei giocattoli animati del sultano, dell’arrivo della nave di Jaffar al porto) a I racconti di Hoffmann, che letteralmente lo ipnotizzò per il rapporto che instaurava tra musica e immagini. Poi, per la prima volta a colori, in sala, Scarpette rosse: colore, luce, movimento, musica. La nascita dell’ossessione di Scorsese per il cinema, ratificata poi nel 1970, quando faceva già il regista, dalla prima visione a colori di Peeping Tom, capolavoro maledetto del 1960 del solo Powell, che circolava, ma in bianco e nero, tra tutti gli studenti di cinema, e che mostrava che il cinema (per chi lo fa e per chi lo guarda) può assomigliare alla follia e può arrivare a inghiottirti. Tra La spia in nero e Peeping Tom ci sono quattordici film scritti, prodotti e diretti da Michael Powell ed Emeric Pressburger. E Scorsese, come un dottissimo, appassionato docente, li passa in rassegna uno per uno, mostrandone spezzoni meravigliosi e sintetizzando in frasi estremamente chiare la solidissima relazione professionale e amicale tra due talenti unici e il senso profondo, visivo e narrativo, quasi sperimentale, rivoluzionario, del loro lavoro. «Filmakers sperimentali che lavoravano all’interno dell’industria», li definisce a un certo punto, cogliendo così la stravagante portata del loro cinema in anni (i 40 e 50) in cui, da tempo dimenticati i fasti e le bizzarrie del muto (Griffith, Stroheim, Lang, i russi, Rex Ingram, con cui Powell si formò negli studi della Victorine a Nizza), non si era ancora arrivati all’esplosione del superspettacolo d’autore, quello nel quale si è poi potuto osare, rischiare, senza perdere il favore del pubblico.
E così passiamo dalla guerra rappresentata come un gioco a rimpiattino, talvolta doloroso, talvolta buffo (49° Parallelo, Oscar a Pressburger per il soggetto), alla romanticissima, struggente ricostruzione storica di Duello a Berlino (quarant’anni di amicizia di un ufficiale inglese e uno tedesco, tra amori, sconfitte, illusioni perdute e nuove patrie ritrovate), all’apparente realismo di una storia d’amore che s’impregna di magia celtica (So dove vado), a un incredibile film su commissione governativa (nel 1945 per rafforzare le relazioni anglo-americane): Scala al paradiso, trionfo del talento visionario di Powell, dell’eccentricità narrativa di Pressburger, dello humor di entrambi, dove il nostro e l’altro mondo s’incontrano, tra bianco e nero e colore, ai piedi di uno scalone che si snoda dal cielo per salvare un amore appena nato, al limitare della morte, sulla Manica in guerra. «Il film nel quale si liberarono definitivamente dal realismo per abbracciare il surrealismo». Amatissimo dal pubblico, come furono il sensuale, quasi astratto esercizio nel mélo Narciso nero e, soprattutto, Scarpette rosse, per Scorsese «the ultimate commercial subversive movie», dove l’eros dell’arte combatte contro la passione amorosa, dove non c’è storia, non c’è scelta, non c’è vittoria, resta solo il volo sulle punte delle scarpette rosse. Il film preferito di Scorsese, che molto prese dalla breve e appassionata vita dell’étoile Vicky Page per Toro scatenato (ma anche da altri film della coppia); mentre il preferito di Powell era Duello a Berlino e quello di Pressburger Scala al paradiso. Ma è difficile scegliere, tra i quattro o cinque capolavori che P&P hanno realizzato, fino alla disarmante “confessione intima” di Peeping Tom, il cinema uccide, che stroncò la carriera di Powell. Fino a quando gli ammiratori Coppola e Scorsese non lo chiamarono come consulente in America, dove Powell incontrò anche la terza delle sue mogli, Thelma Schoonmaker, la straordinaria montatrice dei film di Scorsese.
Made in England è una bellissima lezione di cinema, e i suoi magnifici spezzoni dovrebbero indurre chi non li ha mai visti a scoprire finalmente i film di una coppia di maestri eccentrici, cui il cinema della seconda metà del 900 e di oggi deve moltissimo.
Martin Scorsese celebra l’eredità dei visionari Michael Powell ed Emeric Pressburger, due dei migliori registi e sceneggiatori britannici di sempre. Attraverso una miniera d’oro di clip e rari filmati d’archivio, Scorsese esamina il genio, l’audacia e l’impatto del duo sulla storia del cinema.