Jordan Peele

Nope

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Non guardatelo negli occhi”.

L’avvertimento – per metà una raccomandazione comportamentale, per metà un’indicazione morale  – incornicia Nope, in cui Jordan Peele trova un punto di equilibrio quasi miracoloso (un miracolo “buono”, non come quello cattivo che apre il film) tra le preoccupazioni politiche di Get Out e Us e l’esperienza di produttore (e “presentatore”) di The Twilight Zone, che anche in questa recente incarnazione diverte (più che far riflettere) perché somiglia a una specie di parco giochi della fantasia. “Non guardatelo negli occhi”: “lui” è un meraviglioso cavallo addestrato per il cinema, Lucky, chi parla, fermo accanto all’animale, è Otis “OJ” Haywood Jr., nero, che alza a fatica lo sguardo (non si vuole far guardare) ed è, come spiegherà di lì a poco la ben più socievole sorella Emerald detta “Em” (lesbica: sembra un dettaglio infilato a forza, in ossequio agli orrendi formalismi di rappresentanza statunitensi, ma qui contribuisce a disinnescare altri film e altre storie), il continuatore di un’antica tradizione di famiglia (Haywood), cavalli & immagini. Una tradizione che, anzi, inizia con l’idea stessa di cinema, appena prima che il cinema diventi tale (versione Edison o Lumière): c’era infatti un Haywood in sella al purosangue che Eadweard Muybridge, nel 1878, fotografò con 24 macchine poste in successione e a distanza regolare per descriverne in modo istantaneo il movimento delle zampe – 24 “punti” messi poi in movimento con un prassinoscopio (su questi e altri esperimenti dell’epoca e, più in generale e indietro nel tempo, sulla storia dei corpi che si fanno, per le ragioni più diverse, immagine, ci sono numerosi libri, ma il più originale, colto e appassionante l’ha scritto Barbara Grespi, Figure del corpo, 2019).

Non guardatelo negli occhi”: anche, non da ultimo, per una forma di rispetto. Perché esattamente come la scena allestita da Muybridge, con le sue “armi” puntate verso un cavallo che scappa via al galoppo, il set hollywoodiano in cui si trovano Lucky e OJ somiglia pericolosamente a un dispositivo di repressione – quasi un plotone di esecuzione: un animale “segnato” da alcune crocette (sparare qui), un fondo neutro per non distrarre i tiratori, un numero sproporzionato di persone variamente “armate”. Del resto, la similitudine è già nella parola, oltre che nei gesti e nei risultati: to shoot, fare fuoco, sparare, fucilare; scattare, riprendere, realizzare un servizio fotografico ecc. E varrà la pena notare, a proposito di archeologia dei media e del rapporto originario e tutt’altro che accidentale tra immagini e armi, che il desiderio di analisi della realtà di Muybridge (con particolare riferimento al movimento degli animali) fu condiviso, in quegli stessi anni, dal francese Étienne-Jules Marey: che per le sue ricerche inventò un fucile cronofotografico. Puntare, mirare, colpire…

La storia dell’immagine tecnica, in breve, inizia così: sparando alla realtà per catturarla – per vederla meglio, come non era mai stata vista prima, e dunque, di fatto, smettendo di vederla per quello che realmente è, per metà rivelandola, per metà uccidendola (immortalare). La dissociazione è fatale ma, da sempre, coincide con la scommessa della rappresentazione, col suo fascino e il suo inciampo emotivo e cognitivo, che possono anche tradursi, come già in Get Out, in una guerra di sguardi – per la cattura, il possesso, la comprensione, la deformazione. Ha dunque ragione OJ, che è poi lo stesso attore che veniva guardato e imprigionato nel film d’esordio di Peele, a non voler incrociare gli sguardi di chi gli sta di fronte su quel set, seminascosto nell’ombra. Non è paura degli uomini, è paura delle immagini – di se stesso fatto immagine. Solo all’epoca di Muybridge e Marey, e per qualche decennio ancora, si poté pensare che lo sguardo dell’uomo fosse un esercizio “oggettivo”, neutro, scientifico, e che la realtà non potesse restituire lo sguardo.

Così, non sorprende (di qui in poi è tutto spoiler) che l’animale extraterrestre che minaccia il ranch californiano di OJ detesti essere ingannato dalla riproduzione – cavalli veri, cavalli finti: ossia, immagini che simulano la realtà e confondono le idee –, colpisca (reverse shot…) chi lo guarda, e abbia la forma di un gigantesco occhio – una pupilla nera al centro di un cerchio bianco – e anzi sia, più esattamente, la sintesi organica di un occhio e dell’immagine (eh sì) stereotipata del disco volante, il paradigma di un dispositivo cine-fotografico di cattura della realtà e del desiderio di vedere oltre la realtà (extraterrestre). In sintesi: un divoratore di spettatori, gente che guarda, che non riesce a non guardare, e si lascia volentieri catturare, appunto, da ciò che vede – un animale che vive in una nuvola immobile: un oggetto di scena, appeso in cielo, un’immagine “inganna-occhio” (trompe-l’oeil). In fondo, quella creatura rende possibile ciò che gli spettatori, più o meno segretamente, sempre desiderano: possedere, fino in fondo, l’immagine, entrare nel suo inganno, sconfinare dalla soglia d’allerta che divide e separa la realtà dalla sua rappresentazione.

L’altra metà di questo straordinario film sull’immagine e il cinema (chi mai avrebbe pensato di poterne vedere ancora uno che non fosse il solito giochetto postmoderno, e tanto più all’incrocio spericolato di due generi poco affini come il western e la fantascienza?) è in effetti la riflessione – che un po’ ricorda, opportunamente aggiornate e complicate, le immersioni americane, anni Settanta e Ottanta, di Eco e Baudrillard nel Falso e nell’Iperreale – sul commercio “materiale”, a volte criminale, altre confusivo, tra la realtà e la sua rappresentazione: può trattarsi di una scimmia ammaestrata che a un certo punto esce dal ruolo, ritrova il proprio istinto e uccide la finzione (chi recita accanto a lei in una sit-com televisiva); o può trattarsi di una ghost town western/parco giochi come il Jupiter’s Claim (che esiste davvero), con i suoi edifici da città del West e il suo Winkin’ Well: un pozzo “fotografico” (con una corona di lampadine a bulbo), in cui – consiglia la brochure del parco – occorre guardare verso il fondo e sorridere e “in un colpo d’occhio” (wink) ecco una fotografia. Un’antiquata macchina spettacolare, a metà tra un peep show e un gigantesco obiettivo, che funziona a monetine (nickelodeon…) e si carica faticosamente: è con questo aggeggio che, alla fine, sarà catturato l’animale: una sequenza di lastre fotografiche, pochi spari al momento giusto.

Ma poi, dentro questo film dalla complessità interminabile, ci sono almeno altre due piste interpretative. Più statunitensi, più “ossessive”, più dogmatiche. Per farla fin troppo breve: quella sulla sorveglianza, la meno interessante, sulla quale qualcuno tra qualche mese scriverà un saggio di ispirazione foucaultiana: l’animale alieno è un dispositivo di controllo visivo che non vuole e anzi non può essere visto, la pena che infligge è la cecità, gioca a nascondino ecc. ecc.; tutto piuttosto ovvio. Seconda: quella che forse a Jordan Peele sta più a cuore, la questione razziale (che comunque non si mangia il film): se alla fine dell’Ottocento, in un’America ancora profondamente razzista, l’antenato fantino nero della ripresa di Muybridge era stato una comparsa del tutto strumentale – “scartato” dalla storia e dall’immagine, senza nome, che invece ha il cavallo, il purosangue Sallie Gardner –, adesso i suoi discendenti, sempre a cavallo, catturano immagini e hanno, verosimilmente, non solo salvato la loro terra, ma l’umanità tutta, dalla minaccia di un animale alieno. Più visibili e anzi memorabili di così non si potrebbe, con l’obiettivo di consegnare le proprie gesta e riprese a Oprah Winfrey. Sono eroi antichi e insieme modernissimi, protagonisti della propria storia e, cosa assai rimarchevole, di una storia western, genere “impossibile” per i neri (almeno nel ruolo di eroi), come denuncia (non senza una sottile ironia da Jupiter’s Claim…) il finale tarantiniano, con il cowboy che sopravvive e torna, come sempre fanno i cowboy al cinema, circondato da un tappeto di invadente musica tipicamente western.

In questo finale da favola, OJ e Em si guardano a lungo e intensamente, riconoscendosi e ritrovandosi: si guardano come si guardavano da piccoli (lei alla finestra, lui nel recinto assieme al padre ad ammaestrare cavalli), come si sono guardati nel momento più drammatico del film, quando erano costretti a tenere lo sguardo basso, sperando così di diventare invisibili. In quello scambio di sguardi, in quel campo-controcampo come se ne sono visti migliaia alla fine di un film “avventuroso” ma raramente di tanto significativi, complessi e risolutivi, c’è una specie di trionfo, certo, ma anche la dolorosa consapevolezza che per poter(si) guardare occorre, prima di tutto, aver accecato chi non vuole essere visto. O averlo profanato, come fa Antlers Holst, il vero eroe del film, romantico e folle, una figura che sembra uscita da un film di Werner Herzog – e che discende non dal fantino della sequenza di Muybridge, ma direttamente da quest’ultimo, come suggerisce anche il documentario sugli animali al quale sta lavorando –, direttore della fotografia che ha, per arma, una macchina da presa a pellicola (che dunque si “carica”) e funziona a manovella, alimentata, come le prime macchine da presa, dal movimento del braccio dell’operatore (c’è anche questo in Nope, e inevitabilmente: la pelle delle immagini, analogica o digitale). Come uno sguardo suicida, il solo che può arrivare a guardare fino in fondo, fino al punto in cui l’occhio si schianta, Holst penetra l’animale, lo guarda come nessuno l’ha mai guardato, si distrugge guardandolo, si fonde con lui. È il gesto supremo, inevitabilmente definitivo, che conduce alla Impossibile Shot, come l’ha definita lui stesso: la ripresa assoluta e perfetta e quindi invisibile – la realtà muore con l’immagine, l’immagine esplode nella realtà. Idea stupefacente, bellissima, “cieca”: quella di non poter smettere, nonostante tutto, di catturare immagini e di farsi catturare dalle immagini. Anche a costo della vita.


 

Nope
Stati Uniti, 2022, 130'
Titolo originale:
id.
Regia:
Jordan Peele
Sceneggiatura:
Jordan Peele
Fotografia:
Hoyte Van Hoytema
Montaggio:
Nicholas Monsour
Musica:
Michael Abels
Cast:
Daniel Kaluuya, Keke Palmer, Brandon Perea, Michael Wincott, Steven Yeun, Wrenn Schmidt, Keith David, Devon Graye, Terry Notary, Barbie Ferreira, Donna Mills, Oz Perkins, Eddie Jemison, Jacob Kim
Produzione:
Universal Pictures
Distribuzione:
Universal Pictures

OJ e Emerald gestiscono insieme al padre Otis un ranch nell’entroterra della California. La morte del genitore, colpito da un nichelino caduto inspiegabilmente dal cielo, è il primo segnale di misteriose presenze che sembrano provenire direttamente dal cielo sopra la loro abitazione...

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