In salone ho una Radio Cubo Brionvega. È nera, è originale degli anni Settanta, era dei miei genitori ai quali l’ho sottratta. Ce l’ho e mi piace moltissimo ma, se non l’avessi, non comprerei mai la versione rimessa in commercio di recente dall’azienda italiana dell’elettronica. Anche se è uguale.
Allo stesso modo, in casa ho i dvd della trilogia originale di Star Wars, e dubito che acquisterò quello di questo Episodio VII: il risveglio della Forza. Non perché sia brutto, o noioso; ma perché è un’operazione di modernariato vintage, che non mi interessa granché e non mi emoziona.
Perché il film di J.J. Abrams sta al capostipite di George Lucas, e ai due capitoli successivi (la trilogia prequel è scarsamente presa in considerazione, a torto o a ragione), come le “nuove” Air Jordan VI della Nike stanno a quelle originali messe in commercio una ventina abbondante d’anni fa. Sono uguali, ma sono diverse, per dirla con Moretti. Sono una replica che, in quanto tale, viene investita del pathos emotivo dell’originale, proprio in virtù di questa sua pedissequa reiterazione. Un’operazione nostalgica di massa, che in quanto tale ha tutte le caratteristiche individuate da Emiliano Morreale in un suo bel saggio sull’argomento: è anti-storica, è al tempo stesso individualizzante e generalizzante, è rapida e infantile.
Sbaglia, e di grosso, quindi, chi pone la questione secondo una logica binaria: o di qua, accettando la nuova natura industriale della saga; o di là, rimanendo aggrappati alla nostalgia del passato. Sbaglia perché, e non da oggi, non dal Risveglio della Forza, la forza dell’industria è proprio quella della nostalgia. Risvegliata.
Non ci poteva essere allora un uomo migliore di J.J. Abrams, il grande giocattolaio vintage della Hollywood del Duemila, alla regia di un film come questo. Uno che viaggia perennemente sul filo del rasoio, in elegante e costante equilibrio tra deferenza fanboysitica e furberie mercantili; uno che si aggrappa alla grammatica e alla sintassi codificate da George Lucas senza disperazione, ma con spudorato orgoglio, consapevole del suo ruolo e dei limiti che gli executives e i fan non vogliono vedere superati.
Anzi, coi limiti, Abrams ci va a nozze, bravo com’è a fare il voyeur dell’immaginario, a giocare con l’effetto vedo/non vedo della memoria, a usare la trilogia originale come tela e, al tempo stesso, i suoi protagonisti storici come abiti di chiffon sotto le cui trasparenze si percepiscono le forme e i caratteri di quelli nuovi.
Ancora una volta, è la nostalgia, al centro di tutto.
Rey, Finn, Kylo Ren, perfino i droidi, esistono in funzione del loro essere depositari dell’immaginario di Luke, Han, Darth Vader, degli altri droidi. Nell’essere la loro progenie anagraficamente adeguata al pubblico di riferimento, e al proseguimento della saga con altri mezzi, legittimata dalla presenza e dal DNA degli originali. E la narrativa del Risveglio della Forza ricalca spudoratamente quella del primo Guerre Stellari e de L’Impero colpisce ancora, ma con i nuovi eroi al centro, perché quelle narrazioni vanno rievocate e rimesse in scena per catturarne sciamanicamente l’anima, mentre scorrono sullo sfondo le archeologie delle icone di ieri. Come nella Sicilia del Gattopardo, anche nell’universo di Star Wars, “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.”
E, se vogliamo, c’è un che di simbolico, dal punto di vista sociale e antropologico, in un film nel quale la genetica gioca un ruolo così fondamentale come quello di Abrams; quasi a voler mettere in scena una generazione (la sua, e forse anche quella successiva) incapace di un’identità significativamente diversa da quella dei loro genitori post sessantottini, e destinata a ricalcarne gli slanci ideali così come le aberrazioni.
Stabilito questo, stabilito il primato della nostalgia (utile tanto per catturare gli spettatori brizzolati quanto i neofiti della Forza, perché la nostalgia di massa è, appunto, infantile e anti-storica), non ci si sorprende di fronte alla scarsità d’innovazione che Abrams ha portato con sé, diversamente da quanto, ad esempio, fatto con Star Trek. E non c’è da tirare in ballo gli archetipi, Omero, il western e l’Unico Grande Racconto della Stessa Storia. Nostalgia, non narrativa.
Stabilito questo possiamo parlare per ore dell’attacco in stile Black Hawk Down dell’apertura, di un mucchio di creature migranti dalla Terra di Mezzo alle galassie lontane lontane, di un Leader Supremo che pare il nonno di Voldemort, di adunate alla Leni Riefenstahl con la Forza al posto della Volontà, e di un nuovo villain nero vestito e mascherato che, invece che dalla gravitas vaderiana, è afflitto da un Edipo morrisoniano (“father, I want to kill you”).
Ma non servirebbe a nulla: sono dettagli invisibili, sfumature che non fanno la differenza pur atteggiandosi a coloriture primarie. Non sono utili alla risveglio della nostalgia, del retrogusto vintage, dell’antiquariato industriale: la Forza, oggi, sta tutta lì. E George Lucas sta da un’altra parte.
Trent' anni dopo il ritorno dello Jedi, un nuovo episodio della saga di Star Wars.