Stabilite le opportune proporzioni, c'è qualcosa che ricorda l'impatto della Storia nel cinema di Pablo Larraín in questo Omicidio al Cairo, terza fatica di Tarik Saleh, svedese di origini egiziane e collaboratore, nel recente passato, del documentarista Erik Gandini. Una Storia che permea la vicenda con il suo clima disfatto e opprimente e diventa punto di approdo, laddove, invece, il contesto di Larraín corre spesso in parallelo rispetto alle traiettorie dei personaggi. Saleh ambienta la sua storia operando una sorta di conto alla rovescia narrativo della durata di dieci giorni che culmina il 25 gennaio 2011, all'inizio della cosiddetta Primavera araba per le strade del Cairo. Il caso raccontato, ispirato a un vero fatto di cronaca precedente la rivoluzione, che vide protagonista un uomo d'affari accusato di essere il mandante dell'omicidio della sua amante, celebre cantante, nelle mani di Saleh diventa un thriller allegorico sugli abusi del potere e sulla corruzione endemica degli apparati dello Stato, che intascano mazzette come regola e insabbiano casi ritenuti sconvenienti. Nel marasma di una città in cui le forze di polizia si preoccupano più di mantenere gli equilibri precari in via di disgregazione che di difendere l'ordine, si staglia sensibilmente dall'insieme la figura sofferta di un investigatore (interpretato da Fares Fares), che ricorda un po' Solfrizzi, un po' Chiellini, ma che discende direttamente dagli antieroi dolenti e silenziosi di Jean-Pierre Melville. Non è diverso dagli altri, anche lui è coinvolto nel clima generalizzato di concussione, però prende a cuore il caso, ed è probabilmente – questo arbitrario ribaltamento di aspirazioni, lo scrollarsi di dosso improvvisamente il consueto torpore – l'occasione più debole del film. È tuttavia un personaggio coerente con gli altri protagonisti del cinema di Saleh (ed è anche più compiuto degli altri), e la sua decisione di affrontare un intero sistema avverso ha qualcosa dell'hamartia classica, che in questo caso assume i contorni dell'errore sociale e politico, più che dell'indole da loser del noir.
Su un plot piuttosto consueto – che si traveste da mystery solo fino a quando si comprende che lo sguardo scambiato dall'uomo d'affari con il killer nella hall dell'hotel non è casuale ma un voluto gesto d'intesa – Saleh cura i singoli dettagli per fornire l'atmosfera satura che è l'autentico valore aggiunto della storia narrata. Lo squallore degli interni e, di contro, lo sfarzo dei luoghi esclusivi, l'acidità di un'illuminazione notturna sempre claustrofobica, l'insistenza sugli obiettivi di riscatto sociale che solo i proventi della corruzione possono garantire, l'anarchia dei dipartimenti di polizia, lo sguardo del protagonista perennemente piegato dall'umiltà di fronte ai maggiorenti della nazione, pur nel coraggio di affrontarne le reazioni, sono l'emblema di una cura dei particolari che è valsa a Saleh il Gran Premio della Giuria al Sundance dello scorso anno. Ed è su questa densa caratterizzazione che il thriller si trasforma in discorso politico, illustrando criticamente l'Egitto disassato del regime di Mubarak e alludendo a un futuro altrettanto fosco, nonostante l'illusione dei giorni di gennaio. La televisione con problemi di sintonia che una volta sostituita trasmette solo canali europei (i tafferugli della Primavera araba sono visti dal detective sul TG3) ha i presupposti della commedia di costume eppure è un preciso riferimento a una nazione ormai inadatta ad accordarsi alle frequenze prestabilite e i cui drammatici sviluppi sono osservati attentamente dall'esterno. L'enorme manifesto su cui campeggiano l'immagine pubblica dell'uomo d'affari sospettato dell'omicidio e il motto dell'azienda di costruzioni che gestisce («Stiamo costruendo il futuro del Cairo») è sì un'esca narrativa in funzione dell'indagine, ma anche – e soprattutto – un monito rispetto alla nuova nazione che si sta edificando. Così come il finale, amarissimo, che allude drammaticamente a un successivo trasformismo già incipiente, in cui il potere si limiterà ad avvicendare se stesso modellando le sue vecchie prerogative.
La forza di Omicidio al Cairo, che è un titolo agathachristiano scialbo, perché ignora la natura dell'evento occasionale volto a palesare il verminaio soggiacente evocato invece nell'originale, è in questo gioco di riflessi e rimandi a un insieme più vasto della crime story messa in scena. Un senso che si metaforizza lungo i suoi snodi decisivi, s'intrappola all'interno degli specchi segreti utilizzati per il ricatto, si rivela attraverso la loro distruzione, illude su una possibile soluzione ma si blocca nella frustrazione dell'impari lotta con la protervia di uno Stato disposto a mutare forma per preservare i propri privilegi.
Noredin Mustafa è un detective corrotto della polizia de Il Cairo. Sta seguendo il caso di una cantante trovata uccisa in una stanza dell’hotel Nile Hilton, e ben presto scopre la relazione segreta della donna con il proprietario dell’albergo, ricco imprenditore e membro del parlamento. Durante la ricerca dell’unico testimone, una cameriera sudanese senza permesso di soggiorno, a Noredin viene brutalmente ordinato di archiviare il caso. Il detective tuttavia non demorde e l’indagine conduce ad un’élite di “intoccabili” che gestisce il paese, immune alla giustizia ...