Non si può fare contemporaneamente John Cassavetes e Douglas Sirk. Stilisticamente, due mondi opposti, anche se empaticamente erano molto simili, capaci di entrare dentro la testa, il cuore, le sofferenze e i disastri delle persone e di trasmetterli agli spettatori. Ma la loro maniera di fare cinema era distante anni luce e, anche se siamo in piena era di commistioni e contaminazioni, una strada bisogna sceglierla, altrimenti si rischia di perdere di vista proprio l’empatia, la passione, la partecipazione. Pieces of a Woman, primo film americano dell’ungherese Kornél Mundruczó, comincia (e procede per un lungo tratto) come un film di Cassavetes: piano sequenza attaccato alla faccia, ai corpi, ai movimenti dei protagonisti, Martha e Sean, una coppia di Boston che sta per avere una bambina con un parto domiciliare. Il parto occupa circa mezz’ora, non risparmia nulla e non finisce bene. Seguono disperazione e disgregazione.
Non c’è niente di male a mostrare un parto con dovizia di particolari, ed effettivamente Vanessa Kirby e Shia LaBeouf sono bravi e ci danno dentro. Il problema è che tutta questa bravura (compresa quella del regista, molto consapevole del proprio virtuosismo) è troppo mostrata, gridata, esibita sullo schermo; mentre Cassavetes lavorava sempre sottotraccia, spremeva il sangue e l’anima dai suoi interpreti, ma nessuno, né lui né loro, si pavoneggiava mai. Lo stesso non si può dire di Mundruczó e dei suoi attori, compresa Ellen Burstyn nel ruolo sgradevole della mamma ricca e colta di Martha, che verso il finale ha un monologo in primo piano sovraccarico quasi quanto l’insopportabile colonna sonora, anche questa “urlata” al pianoforte, di Howard Shore, mai così dilagante. E qui entra in scena l’altra anima del film: il mélo sirkiano, con tutte le trappole che una sceneggiatura ben costruita può disseminare nella vita dei personaggi, con le rivelazioni e le redenzioni, le nevrosi e le incomprensioni, gli abbandoni, le prese di coscienza e un trionfante albero di mele nel finale.
Sirk era una specie di matematico, un cesellatore di inquadrature e movimenti di macchina; anche se i suoi film erano sfarzosi e le sue storie
deliranti, centellinava ogni singolo momento con precisione millimetrica. Sapeva torcerti l’anima con un riflesso, un fiore, un colore, un attacco musicale al momento giusto. Ma era anche uno di quei registi che, per quanto virtuosi, “non si vedono”, i grandi classici al servizio del falso, che ti aiuta a scoprire il vero. Due approcci storici e cinematografici diversi, quelli di Sirk e Cassavetes, ma altrettanto morali. Mundruczó, invece, mette troppa bravura in mostra e troppa carne al fuoco, esibisce il proprio virtuosismo, passando dal realismo esasperato, al mélo, al processuale, tutto concentrato nel giro di pochi mesi, senza riuscire mai a muovere una corda passionale, senza commuoverci. Mai.
Pieces of a Woman è un film ingannevolmente sovraccarico di traumi, ma arido di emozioni. Un pezzo di bravura con poco cuore. E, per di più, anche vagamente ambiguo: se il motore della storia è la scelta di un parto domiciliare (e le sue conseguenze) devi poi prenderti la responsabilità di un giudizio morale. Deve esserci un “colpevole”, un responsabile. Come non possiamo essere contemporaneamente Cassavetes e Sirk, non possiamo nemmeno essere vax e no vax, scientifici e “antiscientifici”. Un autore deve scegliere.
Martha e Sean Carson, una coppia di Boston, sono in procinto di avere un bambino. La loro vita cambia irrimediabilmente durante un parto in casa, per mano di un’ostetrica confusa e agitata che verrà accusata di negligenza criminale. Comincia così un’odissea lunga un anno per Martha, che deve sopportare il suo dolore e al contempo gestire le difficili relazioni con il marito e la dispotica madre, oltre che confrontarsi in tribunale con l’ostetrica, divenuta oggetto di pubblica denigrazione. Pieces of a Woman è un’aria profondamente personale e dolorosamente familiare, tratteggiata in ricercati toni di grigio, la storia trascendente di una donna che impara a convivere con la sua perdita.