Film d’apertura della trilogia norvegese sulle relazioni umane (seguito da Dreams e Love, già usciti in sala) di Dag Johan Haugerud, Sex imbastisce fin dall’incipit una sfida analitica nei meandri dell’audacia espressiva, pur nell’essenzialità di visione: una disamina dell’erotismo senza esplicita sessualità, con quell’appello alla forza della parola, del racconto, che troverà in Dreams, Orso d’oro alla Berlinale 2025, la sua confacente maturità.
Dopo alcune vedute su Oslo, conglomerato ordinato e arioso di palazzi e reti stradali che incorpora recondite connessioni interpersonali, ci si addentra nella confessione reciproca dei protagonisti, tra i soggetti più improbabili che il cinema odierno possa eleggere a portavoce delle frizioni del desiderio e dei segreti inconsci: due spazzacamini che sui tetti della capitale sfidano il centro gravitazionale della modernità globalizzata e anche, nelle loro vicende, la vertigine dei limiti del narrabile. In un lungo piano sequenza i due colleghi, sposati, etero e monogami, si confidano una trasgressione onirica e una reale, con una pacatezza increspata da rarefatti perturbamenti, che travalicano e prosciugano le inquietudini mitteleuropee della Traumnovelle. Uno reitera in sogno un incontro di seduzione da parte di David Bowie, identificandosi come donna, l’altro ha vissuto un amplesso omosessuale, in uno slancio incontenibile e ormai sopito; entrambi, sempre ancorati alle consuete preferenze sessuali e senza transizioni in corso, vengono relegati a un’anonimia lungo il film con cui Sex aspira a un’universalità rappresentativa che, più che allegoria, è elusione degli stereotipi, come da dichiarazione dello stesso regista.
Le voci del desiderio subentrano alla messinscena dei corpi con cui Love, invece, scrutava le interazioni sentimentali, mentre nei dialoghi con le rispettive mogli (di cui una scossa per le rivelazioni del partner) la fissità della cinepresa estrapola dagli interpreti (funzionali a una drammaturgia misurata e decisa) l’autenticità dell’eros, dove si avvicendano pudore e libertà, inibizione e sovvertimento, in un realismo immaginifico con più presa dell’esibizione della fisicità dell’attrazione. Aggirando le deviazioni da commedia e disinnescando il potenziale centrifugo del mélo, Sex depone ogni piglio psicologico per un’immersione distaccata ma sensibile nel sesso come espressione pulsionale e non come scardinamento dell’identità, se non nel pregiudizio degli altri. Scisso nella sua esplorazione binaria tra fantasia e sperimentazione, tra salvaguardia famigliare e crisi di coppia, il film, nonostante la compattezza formale e il bilanciamento di scrittura, orienta il suo sguardo verso il femminino, con la storia dello spazzacamino che sogna Bowie e di suo figlio adolescente (alle prese con i primi avvicinamenti al genere opposto) e con lo scavo introspettivo della moglie dell’altro protagonista, che elabora il tradimento con inevitabili echi da Scene da un matrimonio di Bergman.
Il primo atto della trilogia di Haugerud, malgrado l’umorismo sommerso, distanzia l’empatia dello spettatore, ma neppure filtra le sue immagini attraverso la cinica lucidità di Lars von Trier in Nymphomaniac. Nel suo imperativo etico di rivendicare un’accezione inclusiva e fluttuante persino dell’eterosessualità sacrifica ulteriori concessioni di senso, come quello dell’amore; certo, indagato nei capitoli successivi, ma qui tanto defilato da schiudere un vuoto che la strategia stilistica, così nordica da sconfinare nell’ordinario e subordinata alla progettualità di un cinema a tesi, fatica a colmare, anche nel fervido finale.
Oslo. Due spazzacamini si trovano a confidarsi due esperienze che li hanno fatti mettere in discussione sul piano sessuale.