Nel suo saper raccontare le involuzioni e i cortocircuiti della Storia, anche attraverso snodi significativi di biografie illustri (in Neruda e Jackie, ad esempio, dove le due celebri figure del poeta cileno e della first lady americana vengono colte nel loro incarnare, sia a livello fisico che simbolico, un “dopo”, il momento posteriore a una drammatica cesura temporale), Pablo Larraín mette in scacco, a volte, la verosimiglianza, passando senza soluzione di continuità dal realismo all’affabulazione e calando i suoi personaggi all’interno di autentiche simulazioni narrative.
È ciò che accade anche in Spencer, “a fable from a true tragedy”, in cui la dimensione favolistica - nella sua dichiarata palingenesi finale - prevale sui dolorosi fatti di cronaca domestica che videro coinvolta, poco prima della fine annunciata del matrimonio tra il principe Charles e lady Diana Spencer, la Royal Family britannica.
In questo modo l’autenticità degli accadimenti e delle figure reali perde di significato e acquista senso solo la fabula nera, tragicamente ispirata a una parte dell’esistenza della principessa di Galles, che Larraín ambienta nella dimora di campagna dei Windsor, a Sandringham, tra la vigilia di Natale e il giorno di Santo Stefano del 1991.
«Solo tre giorni», ripete a sé stessa a guisa di un mantra propiziatorio Diana, aggiungendo, mentre si rivolge ai suoi figli, che «qui c’è solo un tempo. Non c’è il futuro. Il passato e il presente sono la stessa cosa».
È proprio questo tempo immobile, inesorabilmente congelato eppure in grado di suscitare una reaziona catartica e liberatoria da parte di una principessa prigioniera - come accade spesso nelle favole - di un maligno incantesimo, che il regista cileno rappresenta con grande efficacia, anche e soprattutto a livello estetico: facciamo riferimento, in particolare, alla plongée iniziale, che svela con inesorabile trasparenza le inalterabili geometrie dell’ambiente da cui la fragile Diana sta per essere fagocitata (torna alla memoria, in questo caso, la scena del kubrickiano Shining, con la soggettiva del labirinto dell’Overlook Hotel visto dall’alto, che al primo allargamento di campo si rivela nel suo alienante statuto di riproduzione in scala).
Un incipit che - associato all’indugiare della m.d.p. sulla fissità degli orizzonti campestri di Sandringham, per lo più avvolti dalla foschia (e sui quali non a caso svetta - fra i tanti simboli emblematici di questa ghost story - Bertie, uno spaventapasseri rivestito del cappotto appartenuto al padre di lady D.) - fa il paio semanticamente con la sensazione di smarrimento della protagonista: con quel suo perdere la strada e qualsiasi punto di riferimento spaziale (oltre che interiore).
L’opposizione tra forzate geometrie e disorientamenti istintivi (vedi il fare riferimento del principe Charles, nel corso di uno dei rari dialoghi con la moglie, a un sé stesso «vero, e quello a cui fanno le foto», che suggerisce la necessità di una sorta di salvifica dissociazione fra pubblico e privato) è ricorrente, in Spencer: ne sono evidente espressione, ad esempio, gli infiniti e anch’essi labirintici corridoi della magione di Sandringham - aristocratica haunted house a cui fa da contraltare l’altrettanto nobiliare ma abbandonata e solitaria Park House, in affitto alla famiglia Spencer sino al 1975 - compulsivamente attraversati da una Diana frammentata e scomposta prima di tutto nel proprio corpo, trasformatosi in un guasto pupazzo a molla che si muove a scatti, senza finalità o direzione.
Si tratta di un movimento speculare ma opposto rispetto a quello posto in essere da Jackie-Natalie Portman nel già citato film del 2016: laddove percorrere gli spazi di un privilegio di status e mediatico non significa - come in Spencer - soggiacere del tutto alle istanze di un Potere dispotico, ma, anzi, servirsene per fare fronte all’elaborazione del lutto e alla minaccia di sgretolamento del proprio mito.
Se - per citare David Foster Wallace - ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, quella del raggelato sentimento tra i principi di Galles, ne è dimostrazione all’ennesima potenza: nella Sandringham House si aggirano disparati ectoplasmi, dal ricordo evanescente della disgraziata Anna Bolena all’intransigente maggiore Alistair Gregory (Timothy Spall), agli stessi Windsor.
Fra tutti questi fantasmi, il più disperato e in fuga da sé stesso è proprio quello di Diana Spencer, a cui Larraín regala un’ultima speranza di riscatto; mentre l’irriconoscibile e mimetica Kristen Stewart le offre una meticolosa quanto irritante aderenza ad atteggiamenti e movenze esteriori del modello reale, al limite della caricatura.
Durante le vacanze di Natale con la famiglia reale nella tenuta di Sandringham nel Norfolk, in Inghilterra, Diana decide di lasciare il suo matrimonio con il principe Carlo.