Allora, dove eravamo rimasti? In Captain America: The First Avenger, il gracile Steve Rogers, in piena Seconda Guerra Mondiale, era riuscito a diventare l’icona della riscossa americana sul nazismo e sul temibile Teschio Rosso.
Quel primo capitolo dedicato al personaggio creato da Joe Simon e Jack Kirby nel 1941, era un war movie contaminato con il film di super eroi, un’operazione non troppo convincente, ma pensata come fase di passaggio verso The Avengers, coronamento dell’operazione di rilancio cinematografico di alcuni storici personaggi della Marvel, nonché culmine della cosiddetta Fase Uno dei Marvel Studios, quella che prima di Captain America aveva coinvolto Hulk, Thor e Iron Man.
Oggi, dopo le vicende di The Avengers, Steve Rogers si è stabilito a Washington, agente dell’organizzazione di spionaggio S.H.I.E.L.D. e ritrovata icona vivente a stelle e strisce, con tanto di sezione dedicata allo Smithsonian Museum a celebrazione del suo mito.
In realtà questo eroe, tornato nel presente dopo 50 anni di ibernazione, è costretto a vivere in un mondo che non riconosce e nel quale fatica ad adattarsi. Perché sì, pur essendo di fronte al più iconico e politico fra i personaggi del fumetto americano, siamo pur sempre in casa Marvel, dove i super eroi hanno super problemi e la dimensione psicologia, per quanto drasticamente semplificata, può e deve essere uno degli ingredienti del racconto. Fin dalle origini negli anni sessanta i personaggi Marvel vivono dubbi e insicurezze, e il mondo là fuori ha sempre sistematicamente influenzato con i suoi fatti di cronaca le storie degli eroi.
Captain America non è certo esente da tale meccanismo. Anzi, il fatto di essere l’incarnazione di un ideale assoluto di libertà e giustizia lo ha reso naturalmente predisposto a confrontarsi con l'attualità: nel ’74, ad esempio, in una saga dal titolo Impero Segreto c’era addirittura l'equivalente Marvel dal caso Watergate, con il Capitano costretto ad affrontare scandali e tradimenti e ad abbandonare il costume per indossare i panni di Nomad, l'eroe senza patria.
In tempi più recenti, la paranoia post 9/11 ha generato la saga Civil War e una lunga e fortunatissima epopea orchestrata da uno dei più sorprendenti sceneggiatori del fumetto americano contemporaneo, Ed Brubaker. Proprio in una sua storica run pubblicata mensilmente dal 2005 al 2012, venivano narrate le origini del Soldato d’inverno, più tutta una serie di altri spunti che gli sceneggiatori di Captain America: The Winter Soldier, Stephen McFeely e Christopher Markus, non hanno esitato a utilizzare.
Anche in questo caso, poi, l’attualità si infiltra nella spy story: è difficile, infatti, non pensare al Data Gate in una storia che vede Steve Rogers confrontarsi non solo con un fantasma che ritorna dal suo passato, ma con un’oscura macchinazione ordita dalla terribile organizzazione segreta Hydra, che aggiorna i classici piani eugenetici del Teschio Rosso all’epoca del controllo totale dei dati digitali.
Ma proprio come avviene nelle storie di Brubaker, in The Winter Soldier l’approccio non è così didascalico da rendere evidente la sovrapposizione fra cronaca e racconto; i riferimenti sono più sfumati e passano attraverso i codici del racconto di genere. E sta qui, forse, la chiave del successo delle trasposizioni Marvel legate all’universo dei Vendicatori: ciascun film, pur nell’elemento supereroistico che li accomuna, mutua codici e meccanismi da un ben preciso genere cinematografico di riferimento.
Se Iron Man, con il suo protagonista bullo, gigione ma tormentato, con la lingua tagliente e la battuta pronta, si ispira all’action movie anni ’80; e se Thor pesca a piene mani dal mondo dei fantasy (con esiti per chi scrive molto deludenti); e se, ancora, The Avengers spinge sull’acceleratore della fantascienza; quest’ultimo Captain America – memore dell’interpretazione recente di Brubaker – è in tutto e per tutto una classica storia di spionaggio.
E allora il coprotagonista naturale non può che essere il carismatico Nick Fury di Samuel L. Jackson, e la partecipazione di Robert Redford acquisisce un senso legato all’iconografia del cinema anni ’70. Il riferimento alle spy story, inoltre, permette di dribblare le oggettive difficoltà di gestione di un personaggio che potrebbe risultare fra i più tronfi e retorici, e che per questo, forse, per buona parte del film, braccato dallo S.H.I.E.L.D. e aiutato soltanto da un ex marine e da Scarlet Johanson aka La Vedova Nera, veste i panni civili di Steve Rogers.
Certo, poi ci si ritrova come sempre in un contesto in cui l’orchestrazione della storia e la scrittura dei personaggi sono al servizio di un prodotto d’intrattenimento, con tanto di conto alla rovescia «3, 2, 1, tutti morti se non schiacci il pulsante» e duello fra protagonista e nemesi sospesi nel vuoto. Il finale, in fondo, è uno dei pochi punti deboli del film, insieme al modo sbrigativo con cui viene liquidata l’origine di Falcon, storica spalla di Cap negli anni ’70 e primo eroe afroamericano nella storia del fumetto supererostico.
Ma i tempi sono cambiati, ed è evidente a tutti: non siamo più alle riletture autoriali alla Burton, Raimi o Nolan. Siamo di fronte a un nuovo capitolo di uno dei più grandi franchise del cinema americano contemporaneo: attraverso film come Captain America: The Winter Soldier, Hollywood sta ridefinendo il modello di blockbuster, rimasto ormai l’unico propulsore, o quasi, del suo business, e lo sta facendo aggiornando il format delle grandi saghe sul modello della serialità televisiva contemporanea.
Comunque la pensiate, il futuro del cinema come forma di intrattenimento di massa, passa anche da qui.
Steve Rogers abita a Washington, dove lotta per adattarsi alla società contemporanea. Quando lo S.H.I.E.L.D. viene attaccato, Steve viene a conoscenza del fatto che il mondo sta coorendo un grave pericolo. Insieme a Natasha Romanoff e Sam Wilson, Capitan America cerca allora di venire a capo del mistero che sta dietro i numerosi atti terroristici dietro ai quali si cela il Soldato d'Inverno.