Con State a casa Roan Johnson ci fa rivivere l’angoscia della quarantena portandoci tra le quattro mura in cui i giovani protagonisti convivono con ansie e turbamenti legati alla pandemia, ma anche e soprattutto all’indeterminatezza del loro futuro e alla rabbia nei confronti delle generazioni più anziane. Questa rabbia sfocia in un incidente mortale ai danni del loro proprietario di casa, descritto come un ricco approfittatore, persona così squallida che il senso di colpa per il suo trapasso si dissolve davanti delle ricchezze che nascondeva in cassaforte. Sotto alle specificità italiane e al contesto pandemico, ci sono le fondamenta della classica narrazione del delitto perfetto da Hitchcock a Danny Boyle: suspense, ribaltamento di ruoli, investigazione, con un pizzico di modernizzazione introdotta qui da home banking e messaggistica vocale.
Ma il film, oltre al genere, allo humour nero, alla concitazione clownesca e alla musica pop che attestano la sua natura di prodotto di intrattenimento, rivela anche uno sguardo cinefilo con qualche pretesa intellettuale. Il virus, per esempio, viene nominato nelle conversazioni e trova una rappresentazione visivamente efficace che rimanda dichiaratamente a Trainspotting, anche se la volontà critica di fondo (esplicitata dal testo che apre e chiude il film come una parentesi) vorrebbe far echeggiare una riflessione più profonda sulla crudeltà dell’uomo, vero virus del pianeta.
I sintomi si manifestano attraverso le sofferenze dei migranti raccontate dall’inquilina abusiva, il tormento per le violenze sessuali subite, gli inganni, la paura, gli interrogativi. Ogni personaggio rivela un dramma profondo di fronte al quale il decesso dell’anziano proprietario appare un male minore, ma l’intento onnicomprensivo si rivela troppo ambizioso, soprattutto per un film che già con la messa in scena del Covid aveva individuato la sua sfida.
La rappresentazione dell’impatto del Covid-19 sulla vita e sulle abitudini delle persone non è certo ancora interiorizzata, come dimostrano le discrepanze tra la realtà diventata quotidianità per tutti noi e la rappresentazione. Le mascherine, per esempio, compaiono spesso ma sovente abbassate o tenute in mano, anche nel momento di un’interazione con qualcuno dall’esterno, contrariamente a quello che è diventata abitudine. Di fronte al gesto disatteso, lo spettatore si chiede se ci sia una volontà creativa, un’approssimazione o se ci si trovi più semplicemente davanti al compromesso richiesto dal cinema e dalla necessità di sfruttare al massimo la capacità espressiva dei suoi attori. State a casa non è un film sul Covid, ma sembra utilizzare questo aggancio sostanzialmente per legare a sé lo spettatore, per portarlo all’interno della storia per poi sorprenderlo con i colpi di scena.
Ma resta un dato di fatto: la questione della rappresentazione della pandemia è aperta e coinvolge tutti i livelli, da quello della narrazione a quello dell’ambientazione, fino alla composizione delle singole scene che ora devono tenere conto di nuovi gesti e rituali. Il virus deve ancora trovare la sua collocazione precisa all’interno delle dinamiche della messa in scena, e il percorso potrebbe essere lungo.
Durante il lockdown, quattro under 30 si ritrovano confinati nell'appartamento che condividono per amicizia e per necessità economica. Nicola ha appena perso il lavoro, l'informatico Paolo e la sua fidanzata Benedetta si scontrano per via della gelosia di lui, e Sabra, di origini africane, deve nascondersi ogni volta che arriva il portiere perché affitta abusivamente uno stanzino. Mancano i soldi per il mensile al proprietario, un uomo gretto e lascivo che ha già fatto intendere a Benedetta di poter pagare "in natura". Dunque lei e Nicola decidono di filmare il suo ricatto sessuale per poi rifiutare di corrispondergli l'affitto. Ma le cose non vanno come previsto, e innescheranno una reazione a catena che travolgerà ognuno di loro.