Charlie Kaufman, per il pubblico, è colui che lo si crede.
A seconda della prospettiva che si assume, può apparire come un autore dannatamente coerente, in grado di spostare sempre oltre l’asse della sua poetica, basata su un terreno di referenze sempre simile a se stesso fin dal suo primo successo, Essere John Malkovich, che risale ormai a 21 anni fa. Oppure può essere ritenuto un maniaco ossessivo, perennemente atterrito dallo scorrere del tempo e dalle ipotesi dell’invecchiamento e della morte. Comunque lo si guardi, Charlie Kaufman è entrambi. Proprio come i suoi personaggi. Proprio come Jake e Lucy. O Lucia. O Louisa. O come diavolo si chiami. Ammesso che sia necessario chiamarla in qualche modo. Kaufman contiene una dose inesauribile di moltitudini. E le inserisce tutte in ciò che racconta, in attesa di leggere il suo primo romanzo, Antkind, attualmente in traduzione da Einaudi per il mercato italiano.
Sto pensando di finirla qui, a dispetto della possibilità di contenere la trama in una sola frase (una coppia viaggia per far conoscere alla ragazza i genitori di lui, ma lei sta seriamente valutando l’ipotesi di lasciarlo), è un film di rara complessità proprio perché, come una matrioska, contiene tutto, in un gioco di livelli che si sovrappongono, si intersecano, si slabbrano (come talvolta succede nelle sue prove da regista). Pur attingendola da un romanzo (l’omonimo esordio letterario di Iain Reid), Kaufman contorce, strizza la materia trattata, ne esalta la natura introspettiva e se ne impossessa, intarsiando il suo racconto di elementi, particolari, dettagli, false piste, esche, indizi e riferimenti che richiedono un’attenzione spossante, se l’obiettivo è cercare di comprendere il senso in un’ottica quantomeno plausibile, per non rimanere perplessi al termine della visione.
Secondo questo aspetto, Sto pensando di finirla qui è il film perfetto per Netflix, più che per la sala, perché invoglia (obbliga?) alla seconda visione, al ritorno indietro per verificare che l’impressione sia giusta (o sbagliata, e quindi riformularla), a riprendere, dopo la fine, alcune sequenze per cercare di imbrigliare in una logica ciò che nasce come illogico per sua stessa natura, perso com’è tra i mille rivoli di pensieri assillanti e contraddittori, di condotte incoerenti dei personaggi, di identità che convergono, si elidono e si osservano dall’esterno. È un film dotato di un’interattività spuria, come su Netflix fu già per Bandersnatch, che invece, proprio per l’impianto della piattaforma, l’interattività la perseguiva in modo incoraggiante, seppur non ancora del tutto compiuta: inutile sostenere, come si legge in molte recensioni straniere, che bisogna farsi pervadere dalla narrazione senza ostinarsi a comprendere ogni aspetto, allo stesso modo del comodo motto «Non cercare di capire, sentilo» di Tenet.
Fa indubbiamente molto postmoderno (ancora?), ma non è la logica con cui ci si deve approcciare a Kaufman (e neanche a Nolan, benché l’azione convulsa sia certo più attraente di un viaggio in automobile di oltre venti minuti, con dialoghi allegorici e lunghi monologhi, intrappolati insieme ai due protagonisti in un abitacolo restituito con il formato Academy, 1,33: 1).
Kaufman non è Tarantino, esperibile a più livelli anche se non si colgono tutti gli aspetti citazionistici del suo cinema, Kaufman è settario e snob, attira nel vortice delle sue storie per operare una netta scrematura tra chi comprende una buona percentuale degli stimoli proposti (per comprenderli tutti bisognerebbe essere Kaufman) e chi invece brancola nel buio praticando un’esperienza frustrante e incomprensibile. Anche Sto pensando di finirla qui, così come Synecdoche, New York, schiaffeggia, non culla, costringe a una soglia di attenzione ben oltre il consueto stato tra veglia e sonno per la quale Metz, se potesse, dovrebbe aggiornare interi paragrafi di Cinema e psicanalisi: sapere che il verso «The Child is Father of the Man» è tratto da una lirica (The Rainbow) di William Wordsworth aiuta molto nel momento in cui la frase, solo pensata da Lucy, Lucia, Louisa o come diavolo si chiami, è raccolta immediatamente dal fidanzato Jake, che le chiede se le piaccia Wordsworth, perché indirizza a decrittare la qualità della relazione che intercorre tra i due, a giocare con le identità, le proiezioni e lo sfaldamento del soggetto. Altrimenti, quella di Jake, sarebbe solo una domanda gratuita, non diversa da ti piace Brahms?, buttata lì per conoscersi un po’ di più dopo sei settimane di frequentazione. Settario e snob, appunto.
La struttura è solo in quattro atti e supera di un quarto i maledetti tre atti proposti da Robert McKee e assunti per disperazione (e parodiati nell’applicazione) dal Charlie Kaufman interpretato da Nicolas Cage ne Il ladro di orchidee, ma è tutta costellata da un eterogeneo gioco di specchi e rifrazioni. Perché i personaggi appartengono al film pur guardandosi dal di fuori, come nel dipinto Christina's World di Andrew Wyeth se Christina guardasse se stessa mentre è sul prato intenta a osservare la casa. Questo gioco di riverberi prospettici è evidente soprattutto nel personaggio di Lucy, Lucia ecc., narratrice, fomentatrice di dubbi, fidanzata desiderosa di mutare la sua condizione (ma quale sia questa condizione è più che altro un problema lessicale, evidenziato in corsivo dalla locandina del film), specchio infranto, pretesto della memoria, riferimento di un’identità in frantumi e chi più ne ha più ne metta. Lucy, Lucia è la raffigurazione metanarrativa del testo che il racconto mette in moto, incarnato nella stupefacente recitazione trasversale di Jessie Buckley, capace di raggiungere toni e registri diversissimi tra loro (il flusso di coscienza, la poesia, la recensione di Pauline Kael su Una moglie di Cassavetes), compatibilmente con la molteplice natura di pittrice, fisica, poetessa, assistente geriatrica, cameriera che la memoria del film attribuisce al suo personaggio a seconda delle schegge di tempo in cui è inserito. Attraverso Lucy si sostanzia anche l’immagine discorsiva di un tempo che, diversamente dal passato di tutte le altre storie scritte da Kaufman, non trasporta più avanti e indietro i personaggi ma si muove attraverso di loro per compiere un percorso d’accompagnamento i cui margini sono la crisi e la morte, senza alcuna alternativa se non quella, illusoria, di un’automobile che si mette in moto nel fuoricampo durante l’ultima immagine che precede il nero dei titoli di coda.
È un viaggio surreale e brechtiano, in cui si mescolano tonalità e generi, in cui i flussi s’intrecciano, le figure si sfaldano e le emozioni si dislocano in altra forma (il Dream Ballet dal musical Oklahoma! con cui si suggerisce una delle possibili soluzioni dell’intreccio, qualora ve ne fosse una).
Si cita David Foster Wallace, ma sembra più un sogno materializzatosi dall’universo di Thomas Pynchon. O forse è solo una delle tante forme con cui si palesa Kaufman, insopportabilmente ancorato alle sue paure, a tratti fastidiosamente autoindulgente con i suoi dedali narrativi, ma indubbiamente uno dei pochi nomi a costringere il pubblico a reagire a una passività troppo spesso incoraggiata.
La giovane Lucy viene portata dal fidanzato Jake a conoscere i genitori di lui, che abitano in una fattoria isolata. Durante il viaggio, Lucy rimugina tra sé la sua intenzione di "farla finita". Nonostante il carattere aperto e cortese dei genitori di Jake, la permanenza di Lucy in casa loro assume dei tratti sempre più spiacevoli e terrificanti.