Sono ormai quasi trent’anni che Roy Andersson ci porta in pinacoteca. Da tempo il suo cinema ha infatti scelto di mettere in forma la narrazione attraverso quadri fissi che si susseguono. Una cifra estetica divenuta autorialità pura tanto da fare dei suoi film un oggetto immediatamente riconoscibile fatto di colori desaturati, di piani prospettici sovrapposti, di interni composti, di esterni plumbei e di esseri umani fluttuanti. Un oggetto prevedibile che codifica quello sguardo personale cui ci si affeziona per l’intelligenza con cui si guarda alla tragedia dell’essere al mondo.
La visita della galleria umana di Andersson si svolge infatti di film in film, di quadro in quadro spingendo lo spettatore ad avanzare lungo le stazioni di una visita che si fa via crucis, disperata e insieme affettuosa, tragica e insieme compassionevole, drammatica e insieme straziantemente divertente. E vedere un suo film diventa un po’ come andare a trovare lo zio più simpatico, quello più acuto e ironico al quale far raccontare aneddoti e storielle per l’ennesima volta, solo per sentire la sua voce e lasciare che, attraverso questa, il racconto prenda forma nell’immaginazione mettendo un po’ di distanza tra sé e le miserie dell’essere umano.
Succede però anche - a volte - che la ritualità del racconto, la sua instancabile, riconoscibile, adorabile ripetizione possa finire per perdere quel minimo di azione necessario a dare profondità al discorso e la visita allo zio resta sempre amabile ma un po’ meno efficace nel mettere in forma una vera riflessione sulla verità della vita.
I quadri, sempre riconoscibili e sempre amabili, ci fanno ancora una volta voler bene a queste figurine emaciate e stanche: il prete in crisi di vocazione, lo psicanalista che perde il bus, il dentista depresso, Hitler coperto di polvere, gli sposi in volo su Colonia si aggiungono alla galleria di Andersson. Anche se, questa volta, più che a dei quadri sembra di stare di fronte a degli schizzi tirati fuori da un cassetto, autoreferenziali e vagamente consumati cui restano naturalmente la dolcezza malinconica e il poetico divertito nichilismo, ma tutto è come smorzato e il sorriso sulla tragica quotidianità della vita risulta un po’ meno salvifico.
Una riflessione sulla vita umana in tutta la sua bellezza e crudeltà, splendore e banalità. Trasportati in un sogno, siamo guidati dalla gentile voce narrante di una Sherazad. Momenti irrilevanti assumono lo stesso significato degli eventi storici: una coppia fluttua su una Colonia devastata dalla guerra; mentre accompagna la figlia a una festa di compleanno, un padre si ferma per allacciarle le scarpe sotto una pioggia battente; ragazze adolescenti ballano all’esterno di un caffè; un esercito sconfitto marcia verso un campo di prigionia. Ode e lamento al tempo stesso, Om det oändliga è un caleidoscopio di tutto ciò che è eternamente umano, una storia infinita sulla vulnerabilità dell’esistenza.