The Italian Banker, terzo film di finzione del documentarista padovano Alessandro Rossetto dopo Piccola patria (2013) ed Effetto domino (2019), condivide con le opere precedenti lo scandaglio di un Nordest in crisi che non riesce a stare al passo con la tradizione di benessere e ricchezza degli ultimi decenni e lo fa, in questo caso, affrontando il tema dei fallimenti delle banche, con una Banca Popolare del Nordest che sta per la Popolare di Vicenza e per Veneto Banca, crollate nel 2017 riducendo sul lastrico 300.000 azionisti, per lo più piccoli risparmiatori; ma questa indagine (Rossetto è innanzitutto un antropologo) dell’umanità gretta e meschina, vittima dei suoi stessi errori, che caratterizza la realtà veneta come anche quella nazionale, è svolta qui in modo molto diverso rispetto ai film precedenti, ed è proprio in questa originalità, in questo sperimentalismo, in questo mettersi in discussione andando fuori dagli schemi che risiede l’interesse del cinema del regista, al di là del valore che possono avere (e che hanno) le sue opere.
Basti pensare che il nostro film nasce dal teatro, da una pièce che il Teatro Stabile del Veneto aveva commissionato a Romolo Bugaro (al cui Effetto domino il regista si era ispirato per il film omonimo) per la scrittura e a Rossetto per la messinscena, nel 2019, sul tema della bancarotta delle banche venete. Rossetto gira anche, in due settimane, delle scene per un film che dovrà essere successivo (la post produzione è fissata per la primavera del 2020), e alcune di queste vengono proiettate sullo sfondo della rappresentazione, che va in scena a Venezia e Padova tra il 2019 e il 2020. Poi la pandemia congela tutto e adesso il film esce nelle sale, dopo la presentazione al Bifest, con un finale diverso e più complesso.
Questo impianto teatrale nel film viene mantenuto, sia nell’unità di tempo, luogo e azione (una notte in una villa palladiana, la Rocca Pisana di Lonigo, in cui si svolge una festa che, come ogni anno, è organizzata dal presidente della banca ora fallita per i suoi azionisti più fidati), sia nella recitazione espressionistica degli attori (su tutti Sandra Toffolatti ma anche gli habitués di Rossetto, Ribon, Artuso, Mazzucato, e Fabio Sartor), sia nel senso di tragicità che pervade l’opera, e che qualcuno aveva già osservato nel primo film.
Al di là del teatro, insieme (cronologicamente) al teatro ed intrecciato ad esso, c’è però il cinema: il bianco e nero vivido e spiazzante di Matteo Calore, a portare la storia su altri lidi, quelli astratti e metafisici, e decadenti, su cui torneremo; le riprese da diverse angolazioni, che ingabbiano i personaggi stando loro addosso ma al contempo li trasportano su un piano più ampio, guardandoli dall’alto come fossero piccole, ma davvero piccole tessere di un mosaico; il movimento, quindi, della macchina da presa, in contrasto con la staticità dell’ambientazione e dei personaggi che, come in L’angelo sterminatore, non vogliono o non possono andarsene, uscire da quella villa; ma soprattutto la musica e la danza, un ballo su note latinoamericane che sembra non dover smettere mai, che è sfogo ma anche tormento, coazione a ripetere come tristemente ripetitive sembrano essere le vite dei protagonisti, frustrati, insoddisfatti, rancorosi quando non dichiaratamente meschini ed egoisti, come quello interpretato da Ribon.
Il paesaggio sonoro, in particolare, di tutto il film è un brano di Batata Y Su Rumba Palenquera, La reina de los jardines, che mette insieme la cumbia colombiana con il soukous (rumba) congolese e con i ritmi cubani, per creare uno sfondo che universalizza la narrazione e che richiama altri balli di altre feste di altre borghesie annoiate e tristi di altri film molto noti (Il bidone è il riferimento più azzeccato), per cui quella che è una denuncia politica e sociale, che si concretizza nella seconda parte del film con l’arrivo del presidente della banca e con il suo mettere in risalto le responsabilità, nel crac, degli azionisti stessi e di tutti coloro che hanno beneficiato dei servigi della banca quando ne avevano bisogno, diventa sempre più la descrizione di un gioco al massacro alla Fassbinder (ricordate Roulette cinese?) tra i personaggi presenti che sono, però, l’emblema di una condizione esistenziale bloccata, ferita, che non può, o non vuole, smettere di ballare una certa danza.
Nei saloni di una grande villa veneta, si sta svolgendo una festa esclusiva: uomini in giacca blu, signore in abito lungo. Molti di loro hanno perso milioni a causa del crollo della Banca Popolare del Nordest. Fra una coppa di champagne e un giro di ballo, le tensioni personali si intrecciano alla frustrazione collettiva. La violenza esplode in concomitanza con l'arrivo dell'ex direttore della banca, deciso a raccontare la sua verità sul crack. Ma con l'alba arriverà la buona notizia dell'esito felice dell'operazione su una bambina.