Era inevitabile che il titolo più citato a proposito di The Last Duel fosse I duellanti, magnifico esordio, nel 1977, di Ridley Scott alla regia cinematografica (prima aveva diretto moltissima pubblicità). Bene, dimenticarselo: tanto stringente era il rigore e ambiguo il mistero che contrapponeva per tutta una vita i due ostinati nemici di quel film nervoso e ombroso, tanto sono ovvi i motivi dell’odio “fraterno” che mette uno contro l’altro Jean de Carrouges e Jacques le Gris e scontate le soluzioni narrative e visive adottate questa volta da Scott e dai suoi collaboratori. Certo, il duello, del quale intravediamo all’inizio la preparazione e la vestizione (il brano più bello del film) e alla fine l’esecuzione, è un pezzo di cinema action notevole. Ci mancherebbe che non lo fosse: Ridley Scott è stato uno dei più grandi autori “muscolari” (e spesso, va sottolineato con rispetto, al femminile, vedi Ripley, Pris, Thelma e Louise, G.I.Jane…) della seconda metà del ‘900 e sa bene che i duelli, si tratti di lance-spade-pugnali (le tre armi concesse dalla legge per il Duello di Dio nel quale si scontrano qui i due contendenti) o daghe e tridenti romani (Il gladiatore, gran film), vanno ripresi a particolari sempre più ravvicinati e affannosi e che le battaglie, soprattutto ma non solo medievali, sono (almeno dai tempi del Falstaff di Welles, ma anche da quelli dell’Enrico V di Branagh) una faccenda fangosa, dolorosa e feroce.
Ma i problemi di The Last Duel non sono certo di natura spettacolare o visiva (anche se una limatina al livido grigiore nel quale il direttore della fotografia Dariusz Wolski immerge il tutto avrebbe contribuito a rendere meno “artificiale” il film). I veri problemi sono di sceneggiatura e di interpretazione. Il film racconta l’ultimo Duello di Dio di Francia, al quale un cavaliere e signorotto normanno sfidò nel 1386 un antico compagno di armi divenuto col tempo nemico, per avergli stuprato la moglie Marguerite. Le mogli, all’epoca, venivano annoverate tra i beni di proprietà dei mariti, ricevendo più o meno la stessa considerazione di un pezzo di terra o di un capo di bestiame. Erano anche caute nel rivelare queste aggressioni perché, se per caso il duello andava male e il loro difensore soccombeva, loro venivano bruciate a fuoco lento sulla pubblica piazza. Il tema, ovviamente, è alquanto attuale, ma la formula scelta per svilupparlo è molto ambiziosa, volutamente ambigua e narrativamente irrisolta. La formula è quella di Rashomon di Kurosawa: cosa dice lui, cosa dice cosa l’altro, cosa dice lei. In questo ordine.
Peccato che gli sceneggiatori (Ben Affleck, Matt Damon, Nicole Holofcener), invece di buttarsi nel piacere del genere, di narrare le diverse versioni dei fatti, anche magari a rischio di mélo, seguano, modernamente, le percezioni dei fatti. Perciò, le tre versioni sono sostanzialmente identiche, diversificandosi solo per uno sguardo in tralice, un sorriso di troppo, un battito di ciglia, e per quanto questi possano essere fraintesi. Ma chi metterebbe in mano a Ridley Scott un film “da camera”? Un film esclusivamente giocato sulle sfumature psicologiche dei personaggi, quando non si tratti di rapporti molto “basici”? Certo, ha diretto I duellanti, ma quel film, non solo era tratto da Conrad, ma soprattutto non cercava motivazioni (tranne quella elementare della differenza di classe dei due protagonisti): era la sfida per la sfida, l’ossessione per l’ossessione. Il mistero. La maledizione.
In The Last Duel, invece, per restare agganciati alla urgente contemporaneità del tema dello stupro, per essere giustamente dalla parte delle donne, malintese e offese, e avendo in mano un soggetto cavalleresco e non giudiziario (come invece Les choses hunaines di Yves Attal, presentato il giorno prima fuori concorso, dal tema analogo), si finisce per impastare un prodotto spesso fiacco, nel quale ci si risveglia per lo più solo nelle scene di azione o in certe orge di palazzo. Danno una mano alla monotonia (al mono-tono) anche i due protagonisti: Matt Damon (che secondo me è un bravo attore e a dimostrarlo basterebbe l’one-man-show di The Martian, il bel film spaziale – questo sì, paradossalmente, “da camera” – ancora di Scott) è praticamente ingessato, non solo dentro l’armatura, ma soprattutto dentro un’espressione accigliata e ingrugnata, immutabile per 142 minuti. E Adam Driver, notevole fisionomia della contemporaneità, è piuttosto improbabile vestito di ferro e in battaglia, più a suo agio in panni domestici, colti e ambigui. Ogni elemento tira in una direzione diversa, la fusione alchemica non funziona, il risultato è sontuoso e confuso.
Avvincente storia di tradimento e vendetta, ambientata nel clima brutale della Francia del XIV secolo, The Last Duel è un film epico storico, un dramma provocatorio che esplora l’onnipresente potere dell’uomo, la fragilità della giustizia e la forza e il coraggio di una donna pronta a mettersi da sola al servizio della verità. Basato su fatti realmente accaduti, il film fa luce sulle ipotesi a lungo tenute per vere riguardo all’ultimo duello legalmente autorizzato in Francia, disputato tra Jean de Carrouges e Jacques Le Gris, due amici diventati acerrimi rivali. La moglie di Carrouges, Marguerite, viene brutalmente aggredita da Le Gris, ma questi respinge l’accusa. Tuttavia la donna rifiuta di stare zitta e si fa avanti per accusare il suo aggressore: un atto di coraggio e di sfida che mette a repentaglio la sua vita. Ne segue un estenuante duello a morte che mette il destino dei tre nelle mani di Dio.