Fare un horror di qualità, non è mai impresa semplice. Ci prova l’irlandese Brian O’Malley con il suo The Lodgers – Non infrangere le regole, riuscendoci però solo fino a un certo punto e perdendosi ben presto in un’intricata – e allo stesso tempo molto confortevole – rete di cliché.
O’Malley sceglie di ambientare la vicenda nella sua terra natale, nei primi anni ’20, per portare sulla scena uno dei capitoli fondamentali della storia irlandese: la guerra d’indipendenza. Anche se la guerra non è propriamente il soggetto della storia, si può considerare Sean, lo spasimante della protagonista, giovane veterano invalido tornato a casa in seguito alla tregua tra Irlanda e Inghilterra, quasi una sua incarnazione e l'eco di morte del conflitto si ritrova onnipresente sullo sfondo. La guerra è per esempio il motivo della rabbia di Dessie, il bullo di paese, per il quale i soldati rimpatriati sono dei traditori della causa indipendentista e la pace una scelta prudente e svilente ma, soprattutto, la guerra è una sorta di maledizione, reale e di gran lunga peggiore di quella che perseguita i due fratelli protagonisti della storia.
Nonostante il sottotesto storico-politico, The Lodgers è però prima di tutto un film horror. Due gemelli, Rachel (Charlotte Vega), e Edward (Bill Milner) vivono soli nella tenuta di famiglia abitata da misteriose presenze. Tanto la ragazza è bella e florida quanto il fratello, pallido, cagionevole, con gli occhi infossati e scuri, pare rappresentare la faccia opposta della stessa medaglia: la vita da una parte, la morte dall'altra. Il ragazzo è fin troppo banalmente la perfetta rappresentazione di uno stereotipato personaggio alla Edgar Allan Poe, con tanto di corvo al seguito: un po’ folle, un po’ omicida, nasconde le sue colpe sotto le assi del pavimento, per poi esserne perseguitato. Ma più ancor del senso di colpa ("the tell-tale heart"), causa e matrice delle sue ossessioni è la casa stessa. Infestata da numerose coppie di spettri, tutti morti suicidi per annegamento, l’abitazione organizza la vita dei fratelli imponendo loro poche, banali ma definitive regole: a letto a mezzanotte, vietato l’ingresso agli sconosciuti, mai abbandonare le mura domestiche. In gabbia, come i due uccellini che troveranno mummificati, Rachel e Edward sono così vicini da sfiorare la morbosità, così interconnessi da perdere i confini personali dei propri sensi (si sfiorano allo stesso modo, l’uno vede ciò che l’altro guarda); eppure allo stesso tempo essi sono così opposti che non potranno che dividersi trasformando la loro relazione in un gioco mors tua vita mea alla cui base c'è - come dice Sean - l’idea che “love can be worse than hate”.
Una conclusione prevedibile, alla quale si giunge attraverso una serie di cliché del genere: le canzoncine ripetute come mantra, la casa abbandonata con le porte sbarrate, il bosco da attraversare, il buio, le candele che si spengono da sole, i temporali, i sogni premonitori e persino lo sgocciolio d’acqua (sebbene in direzione contraria alla gravità) che anticipa le apparizioni degli “inquilini” e che crea immediata associazione mentale (al ribasso) con un film per la televisione di dieci anni fa, In Her Mother’s Footsteps – Le due verità di Kate. Ovvietà che finiscono purtroppo per sovrastare anche i migliori guizzi di O’Malley, come il tentato richiamo a L’Atalante nella scena subacquea o le piccole trovate come l’interruzione della musica al culmine del climax ascendente della suspense.
Una maledizione confina i gemelli Rachel ed Edward nella loro casa di famiglia come punizione per i peccati commessi dai loro antenati. Costretti a rispettare le regole di un’inquietante ninna nanna, i gemelli non devono mai fare entrare estranei in casa, devono andare a letto entro mezzanotte, e devono sempre stare insieme senza mai separarsi. Rompere anche una delle tre regole scatenerebbe l’ira delle sinistre presenze che appaiono nella dimora di notte.