La ricomposizione di una famiglia o la sua progressiva disgregazione: il cinema di Kore-eda si muove fra questi due poli interrogandosi a ogni nuovo passaggio sull’idea di appartenenza, sui legami di sangue e sulla scelta degli affetti.
La famiglia di Un affare di famiglia (Shoplifters), nonna, due figlie adulte, il marito di una delle due e un bambino, a cui a pochi minuti dall’inizio del film si aggiunge una bambina affamata e maltratta dai genitori, è un nucleo unito e inscalfibile, a differenza di quella lacerata dal lutto di Still Walking, di quella distrutta dalla separazione di Ritratto di famiglia con tempesta, o ancora di quella sconvolta dalla rivelazione di uno scambio in culla di Like Father, Like Son. Tutti quanti vivono stipati ma sereni in una minuscola abitazione che forse occupano abusivamente, circondati da oggetti, vestiti e ciarpame vario, mangiando il cibo che il padre e il figlio rubano nei supermercati.
Sono una famiglia di piccoli ladri, la nonna percepisce ancora la pensione del marito morto, la madre ha un lavoro part-time che a un certo punto perde, la sorella minore si esibisce come ragazza in vetrina, il padre ogni tanto lavora nei cantieri ma il più del tempo lo passa escogitando col figlio vari modi per tirar su il pranzo e la cena. L’arrivo della nuova bambina è un’occasione felice per donare amore e calore, niente di più. «Sembra un rapimento di persona», obietta il padre; «no», le risponde la moglie, «perché non chiediamo alcun riscatto e le diamo da mangiare». E poco dopo, stringendola forte in un abbraccio materno, le insegna la differenza fra un amore che fa male e un amore che semplicemente coccola e scalda.
Kore-eda filma questo mondo isolato e felice, fuori dalla geografia di una città imprecisata e fuori dalla legge, con piani fissi ingombri di oggetti e di figure, non soffocante e nemmeno accogliente, ma reso vivo dai colori caldi e variopinti. Per una volta non posiziona la macchina da presa ad altezza tatami, non gioca coi campi e controcampi che scavalcano l’asse di ripresa, ma costruisce dentro la casa, con un montaggio narrativo fatto di piani d’insieme, primi piani e piani di reazione, una replica, o meglio un’alternativa alla realtà. E lo fa per più di un’ora di film, dipingendo i suoi ladruncoli, i suoi shoplifter, come dei reietti colpevoli ma felici perché gentili; chiusi al mondo ma aperti l’uno all’altro. Nei pochi momenti in cui si trovano all’esterno, a lavorare, rubare, vivacchiare, la casa è il loro solo e unico punto di rifugio.
L’inevitabile dissoluzione di questo idillio arriva proprio attraverso la scomposizione della messinscena allestita dal regista: il tempo, con le stagioni che passano dal gelo dell’inverno alla luce cangiante dell’estate, detta il ritmo della narrazione, non la sospende più nella ripetizione della prima parte, ma conduce a una rivelazione destabilizzante; lo spazio, invece, che con l’arrivo della bella stagione comincia a premere dall'esterno e a entrare senza chidere il permesso.
In un momento assolutamente magnifico, tutto questo avviene riassunto e compresso nello spazio della casa: il padre e la madre, finalmente soli, mangiano spaghetti freddi nel caldo dell’estate e a un certo punto decidono di fare l’amore; improvvisamente la luce fuori dalle finestre cambia colore, da solare si fa cupa, arriva un temporale, e i loro due bambini, sorpresi dall’acqua, entrano in casa per ripararsi, quasi rischiando di vederli nudi… È l’inizio della fine, non una scena primaria, perché qualcosa non torna in questa famiglia dove non si usa le parole "mamma" e "papà", ma l’irruzione del mondo che rompe come un grimaldello il guscio protettivo della famiglia. Prima arriverà la morte (ancora occultata nello spazio della casa, non orizzontale ma verticale…), poi il dubbio (dei personaggi e con essi dello spettatore), poi infine la legge.
Kore-eda, limpido al limite dello schematismo eppure pulito e dolce, toglie luce e colore al suo film, spoglia le inquadrature, isola i personaggi. Non li punisce, ma paradossalmente li mette di fronte alla libertà più grande: quella di scegliere. Scegliere di dire la verità, scegliere a quale famiglia appartenere, scegliere se perdonare e ricominciare. Non c’è colpa, non c’è pentimento. La legge non stabilisce una morale, come già succedeva nel precedente The Third Murder, in cui di un omicidio non contavano la ricostruzione o addirittura la rappresentazione, ma la sua interpretazione da parte dei personaggi. A stabilire la morale dei comportamenti sono gli uomini e le donne, al di là delle abituali carinerie del racconto bozzettistico o dell’altrettanto usuale spietatezza delle decisioni e delle parole: e qui sta l’umanesimo di fondo di questo regista straordinario, che da sempre lavora sul tema del doppio e dell’assenza, e ogni volta (almeno da Nobody Knows in poi), giocando sulla ripetizione e la differenza, usa i pezzi consueti del suoi puzzle per trovare una soluzione diversa, un nuovo ritratto, una nuova possibilità.
Dopo uno dei loro furti, Osamu e suo figlio si imbattono in una ragazzina abbandonata nel freddo. Dapprima riluttante ad accoglierla, la moglie di Osamu accetta ad occuparsi di lei. Benché la famiglia sia così povera da riuscire a malapena a sopravvivere, sembrano vivere felici, finché un incidente imprevisto porta alla luce segreti nascosti che mettono alla prova i legami che li uniscono...