Ancora un progetto di animazione sperimentale per Ari Folman, dopo il successo di Valzer con Bashir.
Liberamente tratto dal romanzo Il congresso di futurologia di Stanislaw Lem (Solaris), The Congress si muove all’interno di due piani temporali differenti: un presente alternativo, nel quale Robin Wright (nei panni di sé stessa) accetta di farsi “scannerizzare” a uso e consumo degli studios, e un futuro lontano venti anni, dove chiunque potrà vivere in una realtà parallela fatta esclusivamente di cartoni animati.
Fantascienza distopica attraverso la quale Folman guarda con malinconia alla morte dei corpi, e quindi del Cinema: peccato però che la sua riflessione sul futuro dell’immagine appaia immediatamente, inesorabilmente, vecchia. Comincia con il primo piano di un viso rigato dalle lacrime, quello della Wright, e si conclude con un allontanamento tanto immateriale quanto fisico; ma nel mezzo il risultato è confuso e, cosa non da poco, decisamente superficiale.
Se tutta la prima parte sembra ammiccare pesantemente a S1m0ne di Andrew Niccol, l’improvviso scarto narrativo che ci trasporta due decenni più avanti sembra momentaneamente trasformare The Congress in quell’opera tragica e dolorosa che davvero vorrebbe essere, forse in virtù del richiamo al terzo e ultimo, meraviglioso, segmento dell’inarrivabile A.I. spielberghiano.
Ma è solo un’illusione che dura pochi minuti: l’immaginario è troppo abusato per colpire davvero, e tutto si riduce a una parodia di volti celebri (John Wayne, Michael Jackson) che trasforma la tecnica sperimentale del film in puro esercizio di stile. Le soluzioni visive di Folman finiscono così per assomigliare più a una dimostrazione di video arte che a un utilizzo consapevole del mezzo cinematografico, insinuando nello spettatore il sospetto di una complessità teorica che invece si sbriciola con estrema facilità, senza riuscire a mascherare la portata della propria pochezza.
Satira hollywoodiana all’acqua di rose (la casa di produzione che monopolizzerà lo star system si chiama Miramount) e simbolismi tanto insistenti quanto francamente ridicoli (gli aquiloni): un disastro autoriale completamente privo di sguardo, reso ancora più fastidioso da un citazionismo dilettantesco (Barry Lyndon, Il dottor Stranamore) che, francamente, speravamo fosse superato da tempo.
Robin Wright - nel ruolo di sé stessa - riceve da un grande Studio hollywoodiano un’offerta sconvolgente a cui non può sottrarsi: vendere la propria identità cinematografica. L’immagine di Robin sta per essere digitalizzata e attraverso la scansione del corpo e delle emozioni, verrà creato un campione che renderà eterna l’attrice. Vent’anni dopo, Robin viene catapultata in un mondo animato; tutti i divi che come lei sono fatti scansionare, si riuniscono al Congresso di futurologia dove viene presentata la formula chimica che dà la possibilità di assumere molteplici identità. Tra colpi di scena, scontri e catastrofi, vi sarà spazio anche per una storia d’amore.