È difficile cercare una singola scena simbolica in Eden, l’ultimo bellissimo film di Mia Hansen-Løve. È difficile perché in fondo, in quest’opera fluida e magmatica, tutte le scene tendono a somigliarsi, a rincorrersi, a sfidare la linea narrativa in discesa del tempo che passa e degli avvenimenti che si susseguono.
In Eden, che racconta il sincopato apparire e sparire della scena dance francese, dall’esplosione degli anni novanta alla morbida normalizzazione dell’alba del nuovo millennio, i personaggi abitano il loro tempo con ostentata svogliatezza e accorata partecipazione. Il film sembra proporre per i suoi protagonisti un perenne stato di dicotomia mentale che avviluppa i loro giorni e scioglie le loro notti. Non ci sono scene madri per questi ragazzi alla ricerca di un’esperienza condivisa più che di divertimento, di realizzazione più che di successo.
Apparentemente il film ripropone delle varianti di vita che si specchiano nella musica amata dai personaggi: una replica di qualcos’altro, un ritmo che ripete altri ritmi, una miscela sonora che accompagni corpi e anime attraverso luoghi neutrali ma finalmente sociali come erano i rave o le discoteche – tutte uguali ma tutte diverse – dove sciogliere le sere e le notti. E così è possibile trovare una chiave di lettura del film nel suo proporre un’alternanza continua di giorni e di veglie, di luce e di buio, di parole e di musica, che accompagna una trasformazione costante ma impalpabile dei protagonisti.
Eden è costruito tra interni che si moltiplicano, come una stanza degli specchi di un luna park, ed esterni che sembrano semplici luoghi di passaggio, corridoi da attraversare per raggiungere un altrove, rappresentato dall’aspetto anodino delle discoteche che sanno invece impossessarsi di un senso sociale, affettivo, emotivo, relazionale. Eden si costruisce attraverso il tempo più che nel tempo, utilizza i salti ellittici per costruire una continuità sghemba: i personaggi non cambiano, in fondo, né fisicamente né emotivamente. Semplicemente imparano a costruirsi nel ricordo e nella nostalgia, incamerando dolori e tristezze in maniera non dissimile dalla protagonista del precedente Un amore di gioventù (con qualche imprevedibile assonanza con Inside Out della Pixar).
Si muove, come nota con precisione Roberto Manassero nella sua recensione, “con l’impressionismo dei sentimenti e dei corpi”. Ma il risultato non cerca mai il minimale. Anzi, si muove con una solennità in levare che dona al racconto un andamento da epica rovesciata, come nei migliori film del modello Assayas. Illuminati dalle luci stroboscopiche di discoteche che cambiano con il passare degli anni, i personaggi di Eden imparano cosa significa essere spirito del tempo senza però cercare di cambiare, trascolorando anzi in pionieri della malinconia.
Li pervade un senso di nostalgia perenne che suggerisce che, anche vivendo intensamente il presente, ognuno di loro è lo specchio deformato di un’immagine che è già passato, ricordo, fotografia sbiadita. Proprio come le Polaroid su cui l’irrequieto Cyril vuole lasciare un segno indelebile con il proprio pennello. Un graffito per testimoniare la propria esistenza, confusa tra le note di una musica sintetica che appare sempre uguale, nonostante le infinite variazioni che definiscono la sua essenza.