Proprio nel mezzo di Il filo nascosto c’è una scena esemplare che svela senso e metodo dell’intero film. In primo piano c’è un manichino con su un abito da sposa ancora da terminare. Sullo sfondo si apre una porta dalla quale entra un uomo all’apparenza sfatto (ma è sfocato, si intravede solo la sua sagoma). È Reynolds Woodcock, il grande sarto amato da tutti ma che non sa – o non vuole – amare. Uno stacco cambia la prospettiva: siamo sotto un tavolo, a inquadrare la stessa stanza. L’abito fa bella mostra di sé da un lato, come una quinta teatrale; al centro un divano, illuminato dalla luce di una finestra, che lascia intuire un tiepido sole primaverile. L’uomo si avvicina al divano, dove dorme, in una posizione innaturale, una donna: Alma, musa e compagna di Reynolds che, stanca di vivere ai margini dell’uomo che ama, ha deciso di conquistarsi un ruolo rinnovato forzando la mano del destino.
L’uomo le bacia i piedi (una concessione sentimentale che contrasta la rigidità maniacale fin lì dimostrata dal personaggio), lei si sveglia, lui le prende la mano e le dichiara il suo amore. Tre presenze nella stanza: lui, lei e il vestito. La macchina da presa avanza impercettibilmente durante tutto il dialogo che segue (o, meglio, il monologo in cui lui le chiede di sposarlo) fino a escludere l’abito da sposa che scompare nell’attimo in cui Alma, per una volta padrona del gioco, acconsente al matrimonio.
C’è una geometrica perfezione in questa scena, una corrispondenza assoluta tra lo sguardo che osserva i protagonisti e le cose che li circondano e il modo in cui i corpi e gli oggetti occupano lo spazio. È come se il concetto immanente della consacrazione dell’unione tra i due personaggi – opposti e complementari – fosse presente prima a livello simbolico (ma non astratto) e poi si fondesse con le azioni dei protagonisti. L’affollamento e la rarefazione all’interno di ogni singola inquadratura del film, del resto, è il frutto di un continuo disequilibrio – di forze opposte, di sentimenti contrastanti, di vestiti e rumori – alla disperata ricerca di una (ri)composizione. Reynolds è sin dall’inizio un uomo/specchio, scisso nella sua ossessione creativa tra la manualità del suo lavoro e il lato fantasmatico del ricordo (la madre, l’infanzia, la sorella).
La macchina da presa di Paul Thomas Anderson cancella ogni tentazione metafisica per toccare con mano i suoi personaggi come Woodcock fa con i tessuti: questa fisicità della messa in scena traspare da ogni sequenza, ogni emozione è segnata da una necessità corporea, terrena, carnale. La fame, la sete, il sonno, il malessere sono la punteggiatura del superamento dell’afasia sentimentale del protagonista; i vestiti sono significanti di una necessità di creazione e cambiamento, avvicinamento e fuga. Gli amori si indossano e dismettono come abiti, i sentimenti sono intrecci cuciti con ago e filo, scrigni di un senso segreto che – anche qui letteralmente – ha la concretezza di un messaggio nascosto nelle pieghe di un vestito/sacrario dove seppellire delle parti di noi.
Tutto è fisico, corporeo, materico: Il filo nascosto è un film sul funzionamento di coppia (di relazione, di famiglia, di potere, di ruolo) che cancella ogni psicologismo, che si basa sulla ricerca minuziosa dell’attenzione («Qualsiasi cosa tu faccia, falla con cura» dice Alma nelle braccia dell’amato), della reazione fisica e geometrica di corpi in via di collisione. È il trionfo della materia, del compromesso, dell’incontro tra terra e cielo. L’amore è una forma di digestione, una febbre indotta, un riconoscersi e un riconoscere la propria necessità di abbandonarsi all’altro, senza rete di protezione e senza infingimenti, una riscrittura delle regole di ingaggio che sfiora la felicità come forma di suicidio assistito. L’attrazione è una forma di voracità, l’adesione alle regole di vita ha un misticismo febbrile che include necessità primarie più che ideali sentimentali. Si cerca sempre, come in un duello, l’ultima parola o l’ultimo sguardo, si sfida l’ennesimo capriccio, si ingoia l’estrema umiliazione. La fisicità, del resto, si esprime anche nella mistica creativa del protagonista: la realizzazione di un abito è fatta di dettagli, di minuziose misurazioni, di corpi femminili contemplati, esposti, soppesati.
L’incapacità emotiva di
Reynolds (che rimanda a quella di Newland Archer in L’età dell’innocenza, ma più autoinflitta che imposta dalle regole sociali) si snoda attraverso tic, fissazioni, liturgie legate al mondo materiale (la colazione, il tè Lapsang, le corse in automobile); la mistica della creazione è ben legata al suolo e il furore lavorativo ha più di una concreta allusione sessuale (nelle parole di Alma: «A volte ci alzavamo alle quattro di mattina, dopo essere andati a letto a mezzanotte. E lui era pronto per ricominciare. E io potevo rimanere lì in eterno. Nessuno può resistere a lungo quanto me»).
E in questo film meraviglioso, che si finge elegante per scandagliare il sublime (il «delightful horror» di Burke), si intersecano – alla perfezione, come in un’opera sartoriale – i rimandi e i richiami a Welles (l’abito della madre, fonte di ossessione persa nella memoria, è quasi una Rosebud di tessuto), a Kubrick e Hitchcock (due tra i registi più eccelsamente prosaici della storia del cinema). Un gioco combinatorio di rielaborazione e riscrittura (le manipolazioni di La donna che visse due volte e i fantasmi della memoria di Rebecca, le corse in auto di Arancia meccanica e il trio schubertiano di Barry Lyndon) che non ha alcuna traccia di citazionismo. E infatti, proprio come il «Fuck!» finale di Eyes Wide Shut, Anderson non cerca né la pace né la consolazione, ma una riconquista fisica capace di saldare la superficie delle cose con la loro anima, di sgretolare il muro narcotico fatto di ricordi/rimorsi/rimpianti in nome di una nuova, consapevolmente malata, concezione di sé e dell’atto d’amore: la concretezza del sentimento e del desiderio come continua morte e rinascita, un ciclo emotivo che alterna forza e debolezza, controllo e abbandono, salute e malattia. «Baciami, ragazza mia, prima che io cominci a star male», come si vivesse un’eterna prima volta. Ancora e ancora e ancora e ancora, all’infinito e per sempre.