Un tuono su schermo nero. Una voce dalla radio legge le previsioni del tempo: venti freddi e burrasche, non c’è da stupirsi. L’esterno di una casa popolare: la bow window, uno steccato, delle tende modeste e dozzinali. Una donna che sotto la pioggia si affaccia a ritirare il latte dall’uscio e poi chiama i figli per la colazione. Una, due volte. La macchina da presa, ferma, inquadra la scala interna. Un rumore di passi suggerisce la discesa dei personaggi, che però non si vedono, già fantasmi all’inizio del film. Una voce intona una canzone triste – I get the blues when it’s raining – e la macchina da presa inizia un lentissimo carrello in avanti verso la scala, gira su se stessa, quasi sgomitando per trovare spazio nei locali angusti, sfiora un interruttore scrostato e si rivolge verso la porta d’ingresso, verso l’esterno, alla ricerca di una fonte di luce che fatica a filtrare attraverso le tende. Finalmente una dissolvenza incrociata – il primo salto temporale di un film che fa dei salti temporali la sua grammatica più intima – spalanca la porta e scruta un corteo funebre per poi mostrarci, frontalmente, i protagonisti vestiti a lutto.
Inizia così, attraverso precise, secche, avvolgenti scelte stilistiche, uno dei film più strabilianti del cinema europeo degli anni ottanta, Voci lontane… sempre presenti di Terence Davies, che qualche fortunato ha potuto recuperare al Torino Film Festival dove l’autore è stato premiato con il Gran Premio Torino.
Il film racconta la storia di una famiglia proletaria nella Liverpool degli anni Quaranta e Cinquanta. Un uomo violento e incombente, una moglie piegata dalla consuetudine e dalle botte, due figlie alla ricerca di un matrimonio che le possa liberare, un figlio dolente e conflittuale, spezzato tra un universo femminile di protezione e accoglienza e le urla di un padre padrone. Davies costruisce il suo racconto per ellissi, attraverso piani sequenza capaci di rappresentare il respiro di una consuetudine d’altri tempi – uno dei luoghi prediletti e ricorrenti è il pub, dove si beve e si canta, cattedrale sociale in un deserto di sentimenti – che maschera l’adattamento al dolore con canzoni, giochi, sberleffi che sanno dare un colpo di belletto a una quotidianità affranta.
Voci lontane… sempre presenti mescola lo stream of consciousness joyciano con una rappresentazione della classe operaia che discende, sfumandolo in una amara e dolorosa nostalgia, dal Free Cinema. Davies guarda al passato per capire il presente e scardina ogni tentazione calligrafica; usa l’autobiografia – esplicita nel precedente The Terence Davies Trilogy e ricorrente nel successivo Il lungo giorno finisce – per affrescare un’epoca e lo spirito del tempo; ama i suoi personaggi di un affetto lancinante che schiva però ogni forma di pietismo.
Voci lontane… sempre presenti è un film di poche parole, in cui i sentimenti si esprimono con piccoli gesti e canzoni a squarciagola; in cui le ciglia dei personaggi, quasi sempre murati in una cronica insoddisfazione da cui non sanno evadere, sono pudicamente umide; in cui le diverse generazioni condividono una precarietà esistenziale fatta di gerarchie maschili e immutabilità sociale. Davies racconta con una lucida tenerezza i suoi protagonisti: uomini e donne che combattono un destino già segnato da soprusi e sofferenze attraverso indefinibili, irrazionali piccole esplosioni di vitalità regalandoci un grande film di resistenza umana, di lacrime e sangue, di vita.