Aveva ragione Jacques Rancière a dire che il problema fondamentale della rappresentazione dei subalterni è il fatto che vengano inevitabilmente costretti al ruolo delle vittime e a interpretare il sintomo di un disagio sociale.
Normalmente a un subalterno non viene chiesto di parlare d’amore, d’arte o di bellezza, o di parlare di cose genericamente umane: gli viene chiesto di raccontarci soltanto della sua sofferenza e della sua esperienza di vittima. E, seguendo il gusto dominante per il piagnisteo, ne sono già passate un bel po’ di vittime in questi primi due giorni sulla Croisette: dagli abitanti di Timbuctù segregati dagli estremisti islamici, alla vittima dell’incesto paterno dell’israeliano Loin de mon père, alla povera principessa Grace.
Gli adolescenti di colore delle banlieue parigine poi – che sono delle vittime per eccellenza – quando si volge lo sguardo su di loro, li si interpella solo per raccontarci un problema sociale (sia nel registro della comprensione sia in quello del razzismo). Giunge così come una vera e propria boccata d’aria fresca Bande de filles di Céline Sciamma, il film che ha aperto la Quinzaine des réalisateurs, la storia di una gang di ragazze adolescenti di Bobigny, una delle banlieue a est di Parigi.
La vita della protagonista, la sedicenne Mariame (interpretata splendidamente da Karidja Touré) che va male a scuola e vive in un squallido palazzone di periferia insieme al fratello violento e a due sorelle più piccole, subisce uno scossone irreparabile quando una gang supercool di coetanee le chiede inaspettatamente di diventare una di loro. Vestiti firmati rubati, capelli lunghi e stirati come delle popstar e attitudine minacciosa e assolutamente impertinente, sono gli ingredienti che le permettono di costruire un’identità (il tema ricorrente di tutti i film della Sciamma). E in un mondo dove tutto riparte da zero e dove gli adulti sono scomparsi, i nomi propri ce li si sceglie e non li si eredita da nessuno: Mariame diventa Vic, come vittoria, quello che lei vorrebbe dalla vita.
In questo accattivante e coinvolgente romanzo di formazione in cui veniamo catapultati, il nostro sguardo diventa quello delle ragazze. Gli atti di bullismo, le risse con i coetanei riprese dai cellulari e l’ossessione per la cura del proprio corpo che normalmente verrebbero visti come segni inequivocabili di un degrado sociale (l’ormai ubiqua “mutazione antropologica”, vera e propria espressione-prezzemolo dell’opinione qualunque), sono semplicemente l’alfabeto di cui sono fatte queste vite.
E così succede anche che quando si vedono queste ragazze ballare sulle note di “Diamond” di Rihanna in una sorta di re-enactment fai da te di un videoclip in una camera d’albergo (la scena che meglio sintetizza il film), non si possa che pensare che queste forme di vita quando non ci si precipiti a giudicarle, possano nascondere momenti di inaspettata bellezza.
Tuttavia in questa costruzione costante di se stessi, quello che continua a fare problema è il corpo. Perché la Sciamma non ci fa solo un cantico de-responsabilizzato della costruzione artificiale della propria immagine. Qualcosa a volta si mette di traverso. Il corpo non è manipolabile come i capelli, e non lo si può nemmeno nascondere sotto i vestiti (come fa la sorella più piccola di Vic quando le inizia a crescere il seno).
Diventare adulti, come le ragazze della banlieue sono costrette a fare persino troppo in fretta, vuol dire anche riconoscere che c’è un limite. E che questo non appartiene solo alla società, ma anche alla dialettica a volte un po’ imperscrutabile del nostro desiderio. Delle eredità insomma possiamo fare a meno, così come dei padri (e persino degli uomini ci dice la Sciamma). Quello di cui non possiamo fare a meno è riconoscere che “diventare sé stessi” non è mai una soluzione, come vorrebbe farci credere l’ideologia narcisista oggi dominante, ma un enigma al quale non è sempre possibile dare una risposta.