Non si fa che parlare di Matthew McConaughey.
True Detective sulla HBO, The Wolf of Wall Street e Dallas Buyers Club al cinema, il Golden Globe e la candidatura agli Oscar: l’attore texano è un caso. Dalle prime file dove stava più o meno posizionato da qualche anno, insieme ad altri “belli e bravi” in serrata competizione (Bale, Phoenix, Affleck, Fassbender, Gosling), McConaughey è improvvisamente arrivato a contendersi la pole position con DiCaprio, che da tempo e in maniera ostinata, quasi maniacale, sta provando a dimostrare di essere il migliore.
Ora però c’è il texano, l’attore su cui pesava il pregiudizio – peraltro non infondato – di essere il classico tipo che non aspetta altro che togliersi la t-shirt: faccia strafottente, camminata da cowboy e poco altro. Ma dopo Killer Joe di Friedkin le cose sono cambiate, e la prestanza fisica ingombrante McConaughey l’ha messa in gioco spingendola fin verso un suo capovolgimento grottesco. Si è così cominciato a parlare di svolta nella carriera, leitmotiv che accompagna molte parabole hollywoodiane, e oggi a conferma della tendenza sono arrivati proprio The Wolf of Wall Street e Dallas Buyers Club.
Al di là della retorica, e delle strategie promozionali, qualcosa è realmente accaduto nella recitazione dell’attore. O, meglio, sono accadute due cose allo stesso tempo, che hanno portato anche gli scettici a riconoscere in McConaughey un attore ormai impossibile da liquidare. Innanzitutto, pure lui ha devotamente sposato la causa della mutazione fisica: ingrassare, dimagrire, costringere il proprio corpo a trasformarsi radicalmente, è una sorta di rito di passaggio a cui molti sembrano volersi o doversi sottoporre.
La perdita di peso, in particolare, spoglia il corpo dell’impalcatura costruita in anni di palestra, lo rende vulnerabile, incerto, nervoso; gli occhi diventano più grandi, le guance si scavano, il collo si innerva. La tanto agognata immedesimazione nel personaggio diventa così un processo tangibile e incontestabile – ci sono le prove – e la pulsione voyeuristica dello spettatore stimolata al massimo grado. Dal punto di vista dell’attore, poi, come hanno già mostrato i casi di Bale e Fassbender, e come ora rimarca quello di McConaughey (dimagrito più di venti chili per recitare la parte di un malato di AIDS), sottoporsi a questo supplizio acuisce la sensibilità, stimola i sensi. Quale miglior espediente, allora, per ottenere interpretazioni ad alto voltaggio? Una sorta di cocaina autarchica, prodotta e consumata dall’attore davanti all’obiettivo, che garantisce risultati sorprendenti.
Ma tra il film di Scorsese e quello di Vallée, a dispetto dei minuti di presenza sullo schermo e delle variazioni di peso, è il primo a mostrare in maniera più nitida la doppia strategia di McConaughey. Nel cameo di dieci minuti in The Wolf of Wall Street, l’attore costruisce una ricercatissima, millimetrica e ritmata partitura di intonazioni e pause, gesti delle mani e delle braccia, sguardi, movimenti delle labbra e del collo. Se si tratta di una perfetta ouverture per la nevrosi orgiastica che seguirà, la sua performance è anche quella di un caratterista di razza che si staglia, e per certi versi si distacca, dal resto del film per il tratto autoironico, per il virtuosismo ostentato, e per quella vena scanzonata che Di Caprio tanto cerca e non sempre trova.
Quello che McConaughey è riuscito a fare in entrambi i film, seppur con dosaggi differenti, è un azzardato gemellaggio tra due approcci alla recitazione che sommariamente potremmo definire interiore ed esteriore. Quel medesimo corpo è capace di assoluta dedizione alla causa del personaggio e allo stesso tempo elude il rischio della feticizzazione grazie al tratto autoironico e gigionesco. Tutto è esasperato fino al parossismo e a un passo dal ridicolo. Ma McConaughey lo sa, o almeno così sembra. E questo lo rende, al momento, uno dei pochi attori realmente capaci di giocare a tutto campo con la recitazione, di scherzare prendendo tutto molto, ma molto, sul serio.