A volte, per avere un giudizio non solo obiettivo, ma tutto sommato relativamente lusinghiero su di un personaggio storico, bisogna paradossalmente rivolgersi a chi di questo personaggio ne fu avversario in vita. François-René de Chateaubriand, nei suoi Mémoires d’Outre-Tombe, di Napoleone Bonaparte ci dà questo ritratto: «Un poeta in azione, un genio immenso nella guerra, una mente instancabilmente abile e sensata nell’amministrazione, un legislatore laborioso e ragionevole, ma come politico egli lascerà sempre a desiderare». Un giudizio non molto diverso lo esprimerà Stanley Kubrick poco più di un secolo dopo: «La sua vita sessuale era degna di Arthur Schnitzler. Era uno di quei rari uomini che tengono in moto la storia e plasmano il destino della propria epoca e delle generazioni a venire: in un senso molto concreto, perfino il nostro mondo è il risultato di Napoleone. Tutti i problemi che vengono affrontati nella sua storia sono estremamente attuali: la responsabilità e gli abusi del potere, le dinamiche dell’evoluzione sociale, il rapporto dell’individuo con lo stato, la guerra, il militarismo e così via».
Pare che, fra le altre cose, Kubrick fosse affascinato dalle affinità esistenti fra il Napoleone stratega e il lavoro del regista cinematografico (Michel Ciment racconta che, secondo Kubrick, «la post-produzione nella vita di Napoleone fu un disastro; la sceneggiatura era eccezionale, la regia fantastica, ma con la post-produzione, che fu la campagna di Russia del 1813, perse tutto per mancanza totale di un’accurata preparazione»). Kubrick era inoltre profondamente insoddisfatto dalle precedenti biografie cinematografiche di Napoleone. Al celeberrimo Napoléon (1927) di Abel Gance, pur ammirandone la tecnica, rimproverava il non averne saputo rendere il genio, sia come stratega che come politico. Secondo Kubrick, Gance si era lasciato andare al puro piacere della narrazione e della visionarietà, trasformando la vita di Napoleone in una mera chanson de geste. Nel suo progetto, Kubrick ne avrebbe invece fatto un racconto epico ma obiettivo, enciclopedico ma appassionato, con un ampio uso di musiche – soprattutto la Terza sinfonia – di Ludwig van Beethoven (genio assoluto e insuperato che, come Napoleone stesso, visse a cavallo fra due epoche così contrastanti fra loro, sapendo poi riplasmare nei rispettivi ambiti lo spirito delle cose a venire).
Diverso da quello di Abel Gance l’approccio di un altro regista francese, Sacha Guitry: il suo Napoleone Bonaparte del 1954, con Jean-Pierre Aumont nei panni dell’Imperatore, si concentra sull’uomo politico, l’amministratore, l’intrigante, il diplomatico, affidando la narrazione guarda caso a Talleyrand (interpretato dallo stesso Sacha Guitry) e arrivando a conclusioni sul personaggio non molto lontane da quelle di Chateaubriand e dello stesso Kubrick.
Nel corso degli ultimi cento anni e tre lustri di cinema, Napoleone Bonaparte di film a lui dedicati ne ha avuti a bizzeffe, dal muto La partie d’échecs de Napoléon (1907) di Victorin-Hippolyte Jasset, fino al più recente e simpaticamente “fantastorico” I vestiti nuovi dell’Imperatore (2001) di Alan Taylor, con uno strepitoso Ian Holm redivivo Napoleone fuggito da Sant’Elena che riconverte il suo genio strategico nella vendita di meloni, nonché al televisivo Napoleone (2002) prodotto e interpretato magistralmente da Christian Clavier, ambizioso ed efficace come ricostruzione storica, abbastanza obiettivo nella disamina del personaggio, ma con alcuni dei limiti delle produzioni tv di questo genere (uno come Napoleone Bonaparte merita il Grande schermo, c’è poco da fare, e Stanley Kubrick questo lo sapeva eccome).
Napoleone è stato incarnato da interpreti diversissimi fra loro: Marlon Brando in Desirée (1954), fumettone romantico che dice forse di più sulle origini della dinastia dei Bernadotte di Svezia che su Napoleone; Charles Boyer nell’altrettanto romantico Marie Walewska (1937) con Greta Garbo nel ruolo del titolo; Claude Rains in Hearts Divided (1936) di Frank Borzage, sul matrimonio fra suo fratello Jérôme e la socialite americana Elizabeth Patterson (un loro nipote, Charles Joseph Bonaparte, diverrà Procuratore generale per Theodore Roosevelt e fonderà il Bureau of Investigation, destinato poi a essere riformato come Fbi da J. Edgar Hoover); Dennis Hopper in L’inferno ci accusa (1957) di Irwin Allen, commedia demenziale ante litteram (per farsene un’idea, basti pensare che sir Isaac Newton è interpretato da Harpo Marx); Charles Vanel in un Waterloo del 1929 e Rod Steiger nel kolossal omonimo di Sergej Fëdorovič Bondarčuk (1970; qui, il Duca di Wellington è l’ottimo Christopher Plummer), il cui relativo insuccesso al botteghino mise indirettamente il bastone fra le ruote al progetto kubrickiano. Tutti film che, nel migliore dei casi, hanno saputo cogliere solo uno, o al massimo pochi degli aspetti di una personalità storica complessa e multisfaccettata.
Orfani del progetto kubrickiano, per consolarci a noi piace ricordare giusto tre opere: il Barry Lyndon (1975) dello stesso Kubrick, per il quale il regista si servì di parte del materiale e dell’ispirazione raccolte per il mai realizzato Napoléon; la parodia Napoleone (1952) di Carlo Borghesio, che affianca a un azzeccato Renato Rascel eroe malgré lui lo strepitoso Raimondo Vianello/generale Cambronne che si vergogna a dire le parolacce; e un “non-film” ma che quasi lo è, ovvero l’Autobiografia napoleonica redatta in volume da André Malraux montando brani da diari, lettere e scritti di Napoleone stesso. Il risultato del lavoro di Malraux è una narrazione dal taglio quasi cinematografico, assolutamente senza tempi morti, che ha il merito principale di tradurre in puro dinamismo la vita di Bonaparte. Un film tratto paro paro da questo libro, ne siamo ragionevolmente convinti, sicuramente non si avvicinerebbe che solo in parte all’idea che Kubrick aveva di una biografia filmica dell’Imperatore, ma non ne sarebbe neanche tanto distante (da leggersi, ça va sans dire, con sottofondo la Terza di Beethoven, preferibilmente nella versione diretta da Toscanini).