Si avvicina Cannes 2014 e noi rievochiamo i film che hanno fatto la storia del festival. Abbiamo scelto tra i vincitori della Palma d'Oro (e del Grand Prix, quando non c'era ancora la Palma) alcune delle pellicole che amiamo di più. Cominciamo con "Il Gattopardo", raccontato da Roberto Chiesi.
Il trionfo a Cannes nel 1963 di Il Gattopardo risarcì Visconti dell'ingiusta accoglienza che gli era stata riservata a Venezia tre anni prima per Rocco e i suoi fratelli (a causa delle pressioni democristiane gli fu preferito Il passaggio del Reno di Cayatte).
All'epoca le difficoltà della Titanus (che l'aveva prodotto) furono imputate ai costi eccessivi del film, ma è più probabile che i problemi della società fossero derivati dal fallimento commerciale (oltre che artistico) di Sodoma e Gomorra di Aldrich, tant'è vero che il film di Visconti riscosse un immenso successo popolare e fu l'unico film italiano ad essere regolarmente riedito fino al 1982 (per poi ritornare nelle sale nuovamente nel 2013).
La fascinazione che Il Gattopardo continua a rinnovare, visione dopo visione, è legata anche ad un paradosso. Nel momento stesso in cui Visconti esalta la bellezza di un mondo reale e ricreato – lo splendore del paesaggio siciliano, dell'aristocrazia ottocentesca, dei suoi rituali senza tempo (il lungo ballo finale, stupendo), della caratura fisica e carismatica di don Fabrizio (e di Burt Lancaster, più verosimile di un siciliano autentico), della giovinezza di Tancredi e Angelica (e di Alain Delon e Claudia Cardinale), - mentre magnifica queste forme, spazi, figure e oggetti con un prodigioso senso dell'immagine e del movimento, ne suggerisce anche, più o meno surrettiziamente, la corruzione, il disfacimento, nella dimensione fisica (i pitali ricolmi nel dietro le quinte dei saloni) non meno che in quella morale, la volgarità opportunistica e vorace (Tancredi e Angelica), il tronfio cinismo (il colonnello Pallavicino).
Avvicinandosi alla conclusione il film svela tonalità amarissime di disillusione che si fondono a quelle della stanchezza (e dell'imminente vecchiaia) del Principe. Questo senso di decadenza e di profonda delusione, che vela e al tempo stesso arricchisce lo spessore del film rimanda, necessariamente, al fallimento dell'utopia risorgimentale e quindi alla nascita pregiudicata della nazione italiana come “paese mancato”.