È un dato di fatto. In merito a pellicole cosiddette “di denuncia,” tese a radiografare aspetti e contraddizioni di storie e culture poco conosciute (e come tali meritevoli di attenzione), da tempo immemore la Croisette è un più che comodo porto. Come lo è per tutte quelle cinematografie “minori” che distribuzioni frettolose, quando non lacunose, faticano a coltivare.
Un’opera come 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni sembrerebbe rispondere a entrambi gli assiomi, poiché la disarmante realtà di un Paese allo sbando, imbruttito da oltre trent’anni di regime oltranzista, si sposa con un senso della denuncia – messo a fuoco dall’occhio del trentanovenne Cristian Mungiu – che non può più essere nascosto allo spettatore, romeno e non solo. Quasi fosse arrivato il momento, dopo tanti (troppi) anni di silenzio assenso imposto, per fare il punto sulla situazione di degrado cui fu ridotta la Romania di Ceaușescu, il quale, da par suo, si guardò bene dalla diffusione di notizie e immagini dell'“Età dell’oro.”
In questo senso, 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni è il biglietto da visita del cinema romeno verso il pubblico internazionale – ne è, anzi, la consacrazione – anche se non il capostipite ufficialmente riconosciuto della “nuova ondata” di cineasti nata nel frattempo (inaugurata un biennio prima da La morte del signor Lăzărescu di Cristi Puiu), legati tra loro da esperienze culturali condivise all’estero, dall’amore per quell’arte prima negata e, soprattutto, dal 21/12/89, data della caduta del Conducător e, a sua volta, biglietto da visita per la cronaca del Paese dopo molto tempo.
Se poi il peso della Storia, dopo un potenziale momento di gloria, lascia presto spazio a indifferenza e apatia, una rivoluzione vera e propria, la Romania, la consegue in quel Noul Val Românesc che, con occhio sempre più sensibile e intimista, mira a fotografare cupezza, oppressione e orrori di un periodo buissimo, fondato su menzogna e prevaricazione, fame e sfruttamento. Un cinema che, all’occorrenza, si pone quale invito (retrodatato) a ricominciare dal suddetto 21 dicembre, e perfino a tornare indietro, per provare a capire conseguenze e ripensamenti di un futuro scoraggiato e decisamente incerto.
Solo due anni, quelli indicati dalla dicitura all'inizio di 4 mesi, separano l'assunto narrativo dalla disfatta del Geniul din Carpaţi: ma è sufficiente cogliere da scarni, esatti dettagli il climax di squallore, penuria e indigenza che si respira. E poco importa che l'opera di Mungiu ruoti attorno a un argomento, sino allora considerato tabù, quale l'aborto, su cui il regista-sceneggiatore indugia parecchio prima di ostentare il fotogramma di un feto insanguinato, avvolto da un panno, riverso sul pavimento di una camera d'albergo.
A contare è la figura principale, quella di Otilia: una Madre Courage suo malgrado che sconta prestissimo, sulla propria pelle, le conseguenze di un'azione clandestina. Lungo le ventiquattr'ore in cui si svolge la storia del film, come già nel caso di Puiu, la ragazza tocca con mano i frutti di un Paese corrotto e ostile, sinistro e opaco (significativa la scelta fotografica di Oleg Mutu), dove file chilometriche si raccolgono davanti agli spacci alimentari per comprare il pane, uno sposalizio si trasla da evento di giubilo in tragedia e perfino gli albergatori – restii ad offrire una stanza non prenotata – si rivelano pedine facilmente manovrabili attraverso un pacchetto di Kent.
Pure un atto di amicizia e amore è infangato dal tradimento e dalla calunnia, e il rancido ripensamento di quanto subito in prima persona è occasione, non meno mortificante, per rimettere in discussione un legame sentimentale reso già tiepido da un diversa sfera sociale. Mungiu segue le peregrinazioni di Otilia pensando al noir e perfino all'horror (due tra i generi cinematografici meno graditi al regime), senza staccare un istante dal volto della protagonista (un'Anamaria Marinca d'irraggiungibile intensità, come solo capitava alla migliore Magnani), di cui scruta umiliazione e sofferenza in ogni inquadratura e angolazione, con la medesima consapevolezza di un “documentario industriale” scrupoloso nel non tradire le unità aristoteliche.
Verrebbe da fare il parallelo con una pellicola di altrettanto considerevole importanza: quello Yol di Yilmaz Güney che Cannes premiò ex aequo insieme a Scomparso – Missing di Costa-Gavras, più di una trentina d'anni fa. Prodotti tesi a squadernare, con altrettanto esemplare nitidezza e durezza, ipocrisie e fandonie, scheletri nell'armadio e orrori di paesi e realtà non meno in disarmo, accomunati da un'atrocità e un'omertà che di quelle opere, come del film di Mungiu, sono il principale bersaglio.
Se talvolta la stessa Croisette ha incensato lavori dettati più dal messaggio e dall'attualità dei tempi che da un'effettiva riuscita (si pensi a Fahrenheit 9/11 di Moore), o dove simbolismi controcorrente si sposavano col gusto della provocazione eversiva (Se... di Anderson), nel caso di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, a tutti gli effetti, si è voluto premiare una testimonianza preziosa e necessaria, e rendere omaggio a un cinema debitore delle più note correnti culturali (dal Neorealismo alla Nouvelle Vague, al Free), ma la cui identità storico-culturale, spoglia e dolorosa, non fa somigliare a nessun altro. E trasforma nella rivelazione cinematografica dell'Anno Zero.