Concorso

Ma Loute di Bruno Dumont

focus top image

Ora che Bruno Dumont ha sdoganato il proprio lato grottesco e sgangherato, nel suo cinema convivono e si scontrano due anime. In superficie la farsa, poco sotto, quando non a fianco, talvolta anche nello stesso momento - con la semplice distanza di uno stacco di montaggio - la tragedia. E su tutto, come sempre (e come da sempre), il segno della Grazia.
Con Ma Loute Dumont cerca comprensibilmente di ripetere il miracolo di P'tit Quinquin, mettendo insieme ciò che insieme nel suo cinema non era mai stato o nei si era mai visto, la comica miseria della vita umana e la purezza dell'orrore, la deformazione fisica e il silenzio del male, la leggerezza della creazione pura e l'epifania della bellezza. Ciò che però in quella serie era sorprendente e naturale, in Ma Loute diventa già di per sé maniera, costringendo Dumont a calcare la mano sul grottesco e sul mostruoso, o all'opposto sul trascendente e sul mistico, portandolo a perdere il controllo sul proprio film.
E dunque ancora più surreale e cinico, questo nuovo Dumont non fa che dimostrare come il suo cinema sia soprattutto una lotta di elementi, una battaglia che esplicita in maniera fin troppo netta, accostando Grazia e miseria in modo per nulla mediato, un malessere creativo impossibile da gestire e che P'tit Quinquin aveva in qualche modo risolto.
Gli stessi personaggi del film, gli altoborghesi Van Peteghem e gli ex pescatori Bufort, messi l'uno contro l'altro in una località di mare della Normandia a inizio Novecento, sono al tempo stesso in conflitto e simili, opposti che si attraggono su un piano di deformazione parossistica della realtà. La distanza sociale si accompagna alla deformazione fisica, l'ignoranza contadina alla demenza nobile, e la galleria degli orrori (in chiave di humour nerissimo e quasi demenziale) non si risparmia l'isteria e l'incesto da una parte e il cannibalismo dall'altra. Senza filtri, senza patemi, senza limite.
Questa però, per quanto eccessiva ed esibita, è la superficie del film, la rappresentazione del mondo così come Dumont lo compatisce. Il mondo come lo vede, o come vorrebbe vederlo, in Ma Lout, Dumont invece lo inserisce in maniera improvvisa (in primi piani rivelatori in cui toglie il trucco alla dame del belmondo e ne svela l'impalcatura), o lo cerca al di là della parola (sempre vuota, ripetuta, irriconoscibile nel dialetto del Pa 'd Calais), o dei corpi storpiati e gonfiati, così pesanti e vecchi da non essere degni nemmeno di essere mangiati, o così vacui e gonfi da librarsi in aria.
Ossessionato dalla Grazia e dallo svelamento della bellezza, nel suo catalogo di stranezze Dumont isola come sempre due figure, gli adolescenti Ma Loute, figlio maggiore dei Bufort, e Billie Van Peteghem, ragazza che si veste da ragazzo, o forse viceversa. A loro lascia il silenzio, la paura e l'incertezza, come nella meravigliosa scena in mare aperto, per una volta carica di terrore vero e non di orrore parodistico. E a loro, ancora, lascia la dolcezza degli occhi o la verità dei corpi, che sono animaleschi o puri, né maschili né femminili, mentre tutti gli altri sembrano fatti di gomma, o di legno che si spezza.
Nella lotta inesausta contro il suo stesso universo creativo, Dumont inserisce questi momenti invocando una sorta di liberazione dall'ossessione per la carnalità e la trascendenza che da sempre genera il suo cinema. Ma Loute non risolve la sua battaglia interiore, e per riflesso - lì, in quel primo Novecento che aprì a tutto, alla psicanalisi, alla romanzo modernista, al surrealismo, alla meccanica moderna - anche quella del mondo che mette in scena. Gli omicidi che funestano la località di mare restano impuniti, quasi un riflesso inevitabile di P'tit Quinquin; Van Peteghem e Bufort, dopo essersi fiorati nel nome della grazia, restano stupidi e ignoranti con le reciproche mostruosità. E gli stessi Billie e Ma Loute, lontani da quell'altrove allestito unicamente per loro, finiscono per abbandonarsi, non a caso dopo la scoperta della probabile verità sul corpo dal sesso incerto.
La vita vera marcisce, agli occhi di Dumont. Così come la sua sublimazione religiosa. Non c'è fuga, non c'è compatimento. Solo una condizione bloccata, che non è il riso, non è il pianto, ma è l'attimo che intercorre fra l'uno e l'altro.