Adattamento dell’omonimo classico della letteratura argentina del 1956 di Antonio Di Benedetto, Zama segna il ritorno di Lucrecia Martel al cinema, dopo quasi dieci anni da La mujer sin cabeza (2008). È un’opera fatta principalmente di corpi, quello umano e quello animale. Corpi che lottano, si desiderano, si feriscono lasciando segni indelebili. Il corpo malato e putrescente dello “straniero” europeo si manifesta in tutta la sua inadeguatezza e inferiorità, mentre quello dei nativi sottomessi s’integra in maniera armoniosa con la natura e i suoi luoghi impervi. Il corpo degli animali, adorati come divinità, si muove selvaggio e incontrollato.
“C’è un pesce che passa tutta la sua vita in un continuo viavai, lottando sempre contro l’acqua che non lo vuole, che lo butta fuori”. È la vaneggiante rivelazione che un prigioniero indio fa ai piedi di Don Diego de Zama (Daniel Giménez Cacho) ufficiale a servizio della Corona spagnola, nel Paraguay del XVIII secolo. Questo pesce non si trova mai al centro di corsi d’acqua, piuttosto lungo gli argini: la sua esistenza è legata a un elemento che lo respinge, nella perenne conquista della permanenza. Così è Don Diego, anti-eroe costretto a sottostare agli ordini dei vari governatori che si susseguono in città e che gli promettono a turno di spedire al Re di Spagna la lettera con la richiesta che gli consentirà di ricongiungersi alla moglie e ai figli a Buenos Aires. L’anelato trasferimento non arriverà mai e le inquietudini trasformano progressivamente Zama, che conosce solo rifiuto e umiliazione, in un hombre sin cabeza in balia di illusioni, magie, menzogne, miraggi.
Zama non è infatti mai al centro dell’inquadratura, il suo corpo è fatto a pezzi e mostrato in porzioni, mentre guarda a un fuori campo nel quale, non visto, tutto si rivela. Tutto ciò che l’estro della Martel riesce in questo modo a costruire creando un film parallelo o meglio un film nel film. La narrazione mai lineare procede per scatti e allucinazioni. Come nella tragedia greca, tutto ciò che è funesto, violento, crudele accade fuori dal palco mentre ai rumori, quelli prodotti dagli oggetti usati e dagli animali, è affidato il compito di lasciare che nell'immaginazione dello spettatore si materializzino proprio quei fotogrammi mancanti.
Il suono è una componente preponderante, mai secondaria di tutto il cinema della Martel (affidato alla sensibilità di Guido Barenblum); è la sua stessa elaborazione a costruire intere scene alle quali non è consentito assistere. Come nella sequenza dove Zama rifiuta i piaceri delle giovani indigene appena arrivate in città. Celati dietro una tenda, attraverso una sottile fenditura, s’intravedono diversi copri nudi in attesa e i gemiti dell’amoreggiamento sono sostituiti dal guaire di cani. Il desiderio per Zama è infatti sempre legato alla frustrazione e al non appagamento, non è mai il momento o il luogo giusto: colleziona una serie di dinieghi da parte di Luciana Piñares de Luenga (Lola Duenas); viene deriso dalle donne del luogo che lo colgono in flagrante a spiarle, mentre nude si ricoprono di fango e gli urlano miron (guardone).
Confrontandosi per la prima volta con un film in costume, la regista non si perde nella ricostruzione di fatti realmente accaduti o nella riproduzione pedissequa degli ambienti. Piuttosto ricolloca e ridefinisce tutti gli elementi del film storico, contaminandoli con la presenza straniante dei suoni in primo piano e poche musiche rarefatte di derivazione ispanica che si ripetono. Gli abiti d’epoca e le parrucche male indossate e portate con sciatteria dai personaggi, diventano ridicoli e inadeguati orpelli che i colonizzatori si ostinano a portare in contrasto alla nudità delle popolazioni originarie.
Martel fa i conti con il passato confuso e oscuro del “nuovo mondo, rendendo quanto mai intricata la questione dell’appartenenza e dell’identità che è alle radici del continente latino-americano. Una terra misteriosa popolata da vigogne, cavalli e capre che deambulano dentro e fuori dalle case come in una relazione di quasi parità con gli umani; paesaggi incontaminati e sconfinati; donne e uomini misteriosi dalle pelli colorate, ricoperti da piume o celati dietro maschere; piante esotiche e imponenti. Un mondo che è stato devastato dai suoi occupanti arrivati d’oltreoceano, ancor prima di conoscerlo e senza mai comprenderlo sino in fondo.
Nonostante le numerose difficoltà produttive e una lunga e travagliata lavorazione, Zama è un film con una regia solida e visionaria (e meritava il Concorso). Martel riesce infatti ancora una volta a stratificare in modo sottile e raffinato la riflessione sul legame tra passato e contemporaneità, non solo attraverso il suo talento visivo ma anche con uno sguardo più ampio che coinvolge due tra i maggiori drammaturghi e attori argentini: Daniel Veronese nel ruolo del governatore e di Rafael Spregelburg come il capitano Hipolito Pañtilla. In Italia i loro testi si conoscono grazie alle messe in scena di Luca Ronconi e Manuela Cherubini, quest’ultima anche traduttrice delle loro opere.