È una storia vecchia quanto Hollywood quella di A Star Is Born. Una di quelle storie che è stata raccontata un’infinità di volte, e tre versioni passate alla storia: di William Wellman nel 1937 con Janet Gaynor e Fredric March, di George Cukor nel 1954 con Judy Garland e James Mason e di Frank Pierson nel 1976 con Barbra Streisand e Kris Kristofferson. Del resto il soggetto è la quintessenza del grande romanzo popolare adattabile a ogni epoca, momento storico e tendenza cinematografica.
Bradley Cooper, al suo esordio da regista, sembra ispirarsi soprattutto al film di Pierson anche se con la precisa volontà di privilegiare la storia d’amore fra i protagonisti. Più che una parabola di affermazione, fallimento e redenzione, sullo sfondo del mondo della musica pop, il film ha un’essenza tragica che fa leva sui sentimenti più elementari e su una serie di cliché della romance cinematografica assolutamente espliciti.
Dopotutto non è certo il filtro della metafora o la sperimentazione linguistica che si richiede a una storia che, come si diceva, si racconta quasi da sola. Motivo per cui il taglio un po’ ingenuo, diretto, persino grossolano di Cooper – che scrive il film insieme a Erich Roth, non esattamente uno qualunque – calza alla perfezione. I destini intrecciati dei due protagonisti – cantanti e compositori di musica mainstream – che, innamorati l’uno dell’altra, si incrociano mentre una è in totale ascesa e l’altro in declino, sono quanto basta per costruirci un film che funziona.
Quello che cambia le carte in tavola sotto tutti gli aspetti però è la questione musicale. Bradley Cooper, che oltre ad essere attore è anche musicista e cantante, dà al suo personaggio – modulato con grande attenzione su quello di Kristofferson (che artista musicale lo era anche di più) – un côté tragico che funziona alla perfezione. Asciutto, calibrato e con un look da cantante folk che oggi, nel 2018, ha davvero un'essenza crepuscolare decisamente romantica, interpreta senza sbavature l’esecutore di un sound che è anche uno stile di vita, un’idea, una leggenda in via di sparizione e di cui ci si sta scordando in fretta. Non è un caso che nei panni del fratello-manager del protagonista ci sia un attore come Sam Elliott, a cui basta un solo sguardo per rendere la malinconia di un tempo dimenticato.
E poi, soprattutto, c’è lei: Lady Gaga. Magari non a suo agio con le dinamiche drammaturgiche che un personaggio complesso come il suo richiede (ma la Straisand lo era?) e decisamente goffa nel modo in cui tenta di calarsi in un ruolo che – forse, ma solo forse – non le appartiene completamente. Capace però di ribaltare tutto nel momento in cui si dà alla performance musicale. La presenza scenica, il grado di immersione interpretativa, la potenza e la straordinarietà vocale della cantante, sono ciò che rende questo film il contenitore emozionale e passionale che è. Uno dei grandi punti di forza della musica pop è quello di essere esplicita, capace di arrivare a chiunque, dappertutto e di spiegare in maniera semplice e orecchiabile i sentimenti e le emozioni che viviamo e di cui siamo fatti. Ed è esattamente questo che fa Lady Gaga: ci sbatte addosso le gioie, i dolori, le amarezze, i tormenti e le euforie che accompagnano tutte le storie d’amore. E i testi delle canzoni – scritte, oltre che interpretate dai due protagonisti, ma c’è anche la mano di Mark Ronson – indugiano su temi e stereotipi che agiscono sulla nostra ricezione primaria, impulsiva ed emotiva. Lasciandoci un po’ spiazzati per tutto il pathos a cui siamo sottoposti. Vedere (e piangere) per credere.