La figura di Steve Bannon non è granché nota dalle nostre parti e forse qualcuno potrebbe chiedersi di quale interesse debba essere – da questo lato dell’Atlantico – un documentario-intervista incentrato interamente sul personaggio di Bannon. Al di là dell’importanza generale e sostanziale di ascoltare e cercare di comprendere il pensiero politico di quello che è stato per alcuni mesi uno degli spin doctor di Donald Trump più influenti, è bene sottolineare come Bannon, ormai allontanato dal partito Repubblicano americano, abbia iniziato a stringere contatti con molti dei movimenti populisti e di estrema destra qui in Europa. Compresa la Lega di Matteo Salvini.
Bannon è molto noto negli Usa per le sue posizioni populiste e per le idee sovraniste in tema di occupazione, immigrazione e politica estera. Ha ricoperto un ruolo cruciale durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016, contribuendo a far eleggere Donald Trump, anche grazie a un uso discutibile degli organi di informazione (veniva dalla vice-presidenza di Cambridge Analytica) ed è poi divenuto membro del consiglio di sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump (incarico dal quale è stato rimosso dopo pochi mesi).
Morris ha intervistato Bannon per un totale di 16 ore dalle quali ha poi estrapolato questo ritratto in cui l’ex consigliere del Presidente emerge come una personalità debordante, impetuosa ed estremamente fedele alle proprie idee. Una figura politica anomala che tradisce tratti al limite del maniacale e che atterrisce per il proprio sguardo intransigente e manicheo, senza alcuna sfumatura.
L’American Dharma – locuzione coniata da Bannon stesso – sarebbe una specie di costruzione ideale della propria missione nel mondo: una commistione di “destino” “fortuna” e “dovere” che dovrebbe permettere a chi ricopre un ruolo di leadership di puntare dritto il proprio obiettivo senza che nient’altro che l’obiettivo stesso debba compromettere il risultato finale. Bannon dice che la teoria gli è stata ispirata dal personaggio di un vecchio film di guerra: Cielo di fuoco (Twelve O'Clock High, 1949) di Henry King, in cui Gregory Peck interpreta un generale dell’aviazione dai metodi di comando duri e inflessibili. Il film di King è solo uno dei modelli cinematografici che Bannon cita durante l’intervista e per il fatto di trovarsi di fronte a un regista (del quale Bannon apprezza il lavoro), sciorina una serie di titoli di celebri capolavori del cinema americano classico che hanno influenzato tanto la sua formazione culturale quanto la definizione della sua personalità. Sentieri Selvaggi (The Searchers, 1956), L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) di Ford, Il ponte sul fiume Kwai (The Bridge on the River Kwai, 1958) di David Lean, Falstaff (Campanadas a medianoche, 1965) di Orson Welles: tutti film in cui emergono personaggi maschili sfaccettati e in modi diversi tormentati o schiacciati dai propri ruoli o dalla propria missione ma che Bannon esalta e ammira quasi sempre per i lati più espliciti e superficiali dei loro caratteri. Elementi come l’inflessibilità, la determinazione o l’altissimo senso del dovere. Arrivando in questo modo non soltanto a dimostrare come la lettura del significato di un film sia molto spesso la riduzione ideologica della propria soggettività, ma anche il grado di banalizzazione che il Bannon uomo, prima ancora che analista politico, è in grado di assegnare alle cose. È tutt’altro che una persona stupida Bannon eppure il suo modo di ragionare sembra voler dare di qualsiasi fenomeno, situazione, evento una visione essenziale, elementare, superficiale. Lasciando il sospetto (un po’ lo stesso che emerge intorno alla figura di Berlusconi in Loro), che tutte le speculazioni e le visioni del pensiero populista come la messa in forma semplice e in grado di proliferare di un concetto superiore più complesso e costruito siano grossolane interpretazioni errate.
Morris esagera forse nel descrivere Bannon come una sorta mostro che minaccia la distruzione dell’apparato democratico – l’intervista avviene in una specie di hangar della II Guerra Mondiale ricostruito in una base aerea abbandonata che poco prima del finale viene dato alle fiamme – ma di certo è bravo a metterne in risalto il fascino nero e pericoloso. I discorsi sulla genuinità della working class e la demonizzazione degli intellettuali e dei democratici, la diffidenza nelle banche e nell’amministrazione pubblica, il protezionismo commerciale, la concezione sovranista della politica che Bannon ripete in un continuo alternarsi di posizioni razziste e superomiste diventano man mano che il film prosegue sempre più familiari. Sono di fatto gli argomenti di cui il dibattito politico europeo (e italiano) si è “arricchito” negli ultimissimi mesi. Un’effettiva congerie di slogan, formule preconfezionate e buone per fomentare il disagio e la rabbia attraverso il sospetto verso l’altro: lo straniero, il politico dello schieramento avverso, l’intellettuale, il giornalista, ecc.
Ma ciò che riesce a essere ancora più inquietante dell’ideologia è la metodologia politica di Bannon. Se l’obiettivo è più importante della condotta allora nessuna tecnica di infangamento dell’avversario, di narrazioni politiche inventate, fake news e argomentazioni da scuola elementare è mai preclusa. Una delle soluzioni più usate da Bannon in campagna elettorale era quella di rispondere alle accuse degli altri con altre accuse ancora più gravi (magari di contesto, storia e tempo differente) per portare lo scontro in termini essenziali, concentrandosi così sulla forma e non sul contenuto: «quando vidi Hilary Clinton, candidato democratico alla Presidenza, che andava in televisione e nei comizi a parlare di me, ho capito che avremmo vinto». Alla lunga però è stata proprio la pericolosa trasformazione dell’ideologia in metodologia ad aver fatto sì che l’uomo forte di Trump fosse estromesso dalla politica statunitense – soprattutto per iniziativa dell’establishment del partito Repubblicano. Del resto è sul lungo periodo che si misurano le parabole politiche, mentre si ha l’impressione che una storia come quella di Bannon non possa durare mai in nessun luogo più di un tempo breve e determinato. Quando Morris chiede al suo interlocutore se è necessario distruggere sempre tutto per ricostruire, Bannon risponde che sì, è inevitabile.
Il rischio che quello che non gli è riuscito negli Usa provi a metterlo in atto qua da noi sembra davvero alto, soprattutto per come sta agendo nelle coscienze di leader populisti come Farage, Le Pen o Salvini. Forse augurarsi che l’ideologia non si trasformi mai in metodologia è più auspicabile. O che non si passi – come di certo preferirebbe dire lui – dalle parole ai fatti.