«Una rivoluzione sta arrivando», dice Steve Bannon nel film che Errol Morris gli ha dedicato, American Dharma. Ma forse, da posizioni opposte a quelle dell’ideologo dell’alt-right americana, al fondo dei tempi che viviamo più che una rivoluzione in cammino sembra di scorgere una guerra. Una rivoluzione, sì, ma come inizio di una distruzione a cui nessuno saprebbe dare una direzione. Ancora una volta, come con il primo conflitto mondiale, che cent’anni fa pose fine con una tragedia collettiva all’Europa imperiale.
Dopo Sunset di László Nemes, anche Capri-Revolution di Mario Martone ritorna a quel periodo, alle sue tensioni politiche ma soprattutto ideali e artistiche: attraverso lo sguardo ingenuo di una pastorella dell’isola di Capri a metà anni ’10 del ’900, racconta l’esperienza di una comune di artisti europei guidata da un carismatico pittore che vuole avviare un modello sociale utopico, fondato sulla condivisione, la liberazione sessuale, la creazione artistica attraverso una relazione intima con la natura.
Il modello dichiarato di Martone è l’esperienza del pittore tedesco Karl Diefenbach, che dal 1900 al 1913, anno della sua morte, avviò nella stessa Capri una comune simile a quella raccontata nel film; ma le parole e le azioni del protagonista dal nome di fantasia Seybu sono ispirate, con un voluto scarto temporale che nasconde il senso dell’operazione, al pensiero di Joseph Beuys, figura centrale dell’arte contemporanea tra gli anni ’60 e ’70 e curiosamente già tirato in ballo da un altro film della Mostra, il tedesco Werk ohne Autor, anche in quel caso nascosto dietro un nome di fantasia (Antonius van Verten).
Il passato di un secolo fa, dunque, ma filtrato dalla modernità di cinque decenni successiva e usato oggi come possibile alternativa a una società, questa, la nostra, che vive il presente come una distopia autoavverante. Le parole di Seybu, che nella sua opera replica la famosa installazione di Beuys Capri-Batterie, che predica l’evoluzione del legame fra uomo e creato, che anticipa il pensiero ecologista, che supera la pittura simbolica del ’900 (replicata dalle coreografie fintamente improvvisate dai membri della comune nelle loro danze liberatrici e ritualistiche) in favore di un’arte di azione e concetto, che nella sua comune avvia una scuola di danza simile a quella del Monte Verità di Ida Hofmann (citata esplicitamente), sono chiaramente l’espressione di quel pensiero sessantottino di cui quest’anno si celebrano i cinquant’anni e che a suo tempo, almeno nei paesi del blocco occidentale, si pose come alternativa utopica al modello capitalista sorto alla metà del XIX, ma in qualche modo fu suo malgrado l’epitome stessa del ’900, dei suoi scontri di idee opposte e simmetriche, della sua Storia fatta di blocchi e divisioni nette.
Si potrebbe perciò discutere sull’attualità del contro-pensiero proposto da Martone, sull’efficacia anche solo ideale del modello utopico indicato da Beuys e da altre esperienze artistiche degli anni ’60 (dal Living Theater alle esperienze di teatro laboratorio), oggi affascinanti da ripensare ma non si sa quanto adatte all’asimmetria sfuggente della contemporaneità.
Capri-Revolution è al contrario un film di polarità nette, di simmetrie faccia a faccia, l’arte e la scienza, lo spirito e la materia, la luce e la carne, lo spiritualismo di Seybu contro la razionalità del medico dell’isola Carlo, il terzo protagonista del film, un giovane socialista che crede ciecamente nella medicina e come molti pensatori illuminati dell'epoca aderì entusiasta alla guerra scorgendovi i segni di una modernità devastante solo per le forze imperialiste, e non per le intere popolazioni d’Europa.
Martone segue come di consueto un modello narrativo d’impostazione rosselliniana, anche nell’evidente incongruenza storica dei suoi personaggi: dichiara, espone, spiega, dà corpo e voce alle idee. In Capri-Revolution, però, gli manca la lucidità e l’oggettività storica di Come eravamo, con le parole dei suoi personaggi (spesso recitate in un inglese internazionale che al netto dei voluti scivoloni storici è difficilmente credibile come lingua comune del primo ’900) non riesce a scavare a fondo in uno scontro dialogico che a differenza di Peterloo di Mike Leigh, per stare a un altro film di questa Mostra, non ha come base il documento ma un insieme di esperienze, pensieri, libri, teorie che la sceneggiatura scritta con la moglie Ippolita Di Majo cerca di sintetizzare.
A Capri-Revolution manca però anche una forma concettualizzata come quella di Sunset, un movimento capace di replicare la Storia nel suo passo vorticoso, oggi inevitabilmente più attuale dell’impostazione didascalica di Martone come modello d'interpretazione. A mancare è, insomma, la sostanza stessa del film, una forma capace di riassumere le forze in campo o una parola che si faccia pensiero. I tre protagonisti, il pittore, il medico e la donna – donna libera, moderna, in anticipo in tempi, pronta nel finale a lasciare l’isola per portare in un altro continente la forza delle idee alla quale si è convertita – dovrebbero essere figure universali, antistoriche ed eterne, ben oltre la credibilità narrativa: restano purtroppo l’ombra di un’intuizione che non supera la semplice esposizione e finisce per togliere forza all’utopia cinematografica di trasformare le storie di ieri nel modello di quelle di oggi.